Quando Francesco Totti da Roma ha deciso di appendere gli scarpini al chiodo si è un po' fermato il tempo, per il calcio italiano e per i suoi tifosi. Probabilmente ancora di più che agli addii di altri grandissimi talenti, come Del Piero, Maldini (seppur un diverso come ruolo), e l'immenso Baggio. Giocatori stupendi che hanno segnato un'epoca, senza dubbio, che sono stati orgoglio, magliette sudate sulle spalle dei bimbi, idoli da inseguire con le scarpette sporche di fango.

Questo addio è pesato di più proprio perché la percezione netta ed inequivocabile era quella che fosse l'ultimo grande campione dai piedi magici che il calcio italiano ci aveva donato. E a giudicare dall'evolversi della nostra serie A si fa fatica a smentire quella sensazione.

Totti ha fatto parte di quella generazione di bambini che si divertivano da matti col pallone, che ci facevano amicizia e con esso stringevano un rapporto così stretto da non avere nulla da invidiare ad altre relazioni umane; pareva potessero fare qualsiasi cosa, insieme, parlandosi e accordandosi sul punto in cui fermarsi dopo una lunga corsa, dopo una carezza o un fendente. 

Chi non ricorda, tra le centinaia di perle, quel sinistro micidiale contro la Sampdoria che volò da una parte all'altra dell'area di rigore come telecomandato, spegnendosi in quell'angolo, in quel punto preciso dove aveva deciso di accasarsi? O il cucchiaio all'Inter, con un Caressa impazzito a urlarne la magnificenza? Gesti tecnici di un giocatore di pallone, di quando ancora si poteva usare questa espressione al posto del termine "calcio", perché era al centro, era il cuore, era il simbolo.

Ora, avendo cercato di seguire le direzioni del mercato e gli integralismi tattici di altri mondi, lontani e vicini, ci ritroviamo ad aver dimenticato quanto fosse bello vedere in campo il giocatore tecnico che inventava la giocata, che cambiava la partita, che fermava lo scorrere dei minuti.

Si sta prospettando una rivoluzione azzurra, con gli ultimi talenti esplosi, ma sappiamo tutti che ci vuole un'estrema cautela nel dargli etichette pesantissime, o addirittura nel paragonarli ad esempi che sono tutt'altro che tali (vedi Kean-Balotelli).

A Firenze abbiamo il giovane Chiesa, figlio d'arte destinato ad altri lidi probabilmente già dalla prossima estate, che sta incantando con una corsa straordinaria abbinata ad una tecnica che non smette di crescere. Dallo stesso settore giovanile è sfuggito presto un altro rampante talento, quel Zaniolo di cui si è forse parlato troppo prima del tempo, senza attendere uno sviluppo umano normale alla sua fresca età.

Ma quello che ci fa innamorare, che ci fa identificare, è il talento cristallino, quello davanti al quale stropicciarci gli occhi, come solo talvolta è capitato col giovane Fede. Come successe a Firenze col già citato Baggio, ragazzino terribile in grado di saltare come birilli gli avversari e di pennellare calci piazzati di classe pura (c'è persino un gioco online in suo nome, con cui imitare le sue "magiche punizioni").

Quel genere di talenti nasce in strada, con gli amici, nelle scuole calcio di periferia, dove si va a dormire col pallone e si va a scuola facendolo rimbalzare tra i piedi inesperti. Ad oggi questo tipo di esperienza manca, si comincia prestissimo a comprare bambini come fossero professionisti affermati, si spiattellano video su presunte capacità fuori dal comune, si discute di ingaggi faraonici, di commissioni, di sponsor, di vita nuova, bella e ricca, di tutto ciò che non ha un vero valore. E il pallone?

Il pallone i bambini non lo comprano più, non c'è più la cultura del super santos, il disco volante arancione che si incastrava sotto le auto e che creava fisici più esperti del Cern, a studiarne gli effetti post-tiro. Non si gioca per far correre la fantasia, ma per percorrere una carriera, che nel 99% dei casi altro non è che una breve pagina di wikipedia ai quarant'anni, e un conto in banca discreto per reinventarsi altro.  

Però a voler essere impiegati del prato verde non si diventa fenomeni, ma gregari, dipendenti pubblici che seguono le linee bianche tratteggiate sul campo. Il talento nasce dall'amore e quell'amore non si impara con lo studio,ma con le ginocchia sbucciate e le saracinesche a far da porta.

Oggi l'ennesimo scialbo pareggio della viola ha visto un'unica nota positiva, l'esordio in serie A del giovanissimo Montiel, giocatore di qualità sopraffine, con un piede invidiabile e una sterzata in cui si intravedono notevoli idee. Ha il fisico gracile, piccolino, e questo gli permette movimenti rapidi e scattanti. Gli espertoni vorrebbero che crescesse, si caricasse di massa muscolare, diventasse un atleta. Ma il Franchi è esploso per averlo visto così, per aver notato in lui le movenze per cui siamo soliti perdere la testa.

Abbiamo avuto un caso di giocatore distrutto dalla palestra, qui, un certo Stevan Jovetic, talento altrettanto puro che faceva girare la testa agli avversari e battere il cuore a noi viola coi suoi ricci indomabili alla Brian May e la sua elasticità esplosiva. Dopo la cessione al Manchester City raddoppiò in massa muscolare e mai fu più lo stesso.

Come detto, con grandissima probabilità il prossimo anno dovremo fare a meno dell'unico vero fenomeno attualmente in rosa, che si andrà a giocare giustamente trofei e ingaggi monstre dove gli compete; il mio sogno è che si eviti di distruggere questo ragazzo spagnolo che ha la fame del ragazzino, veloce e tecnico, e gli scarpini ancora macchiati di fango, quello che tempra un futuro campione.

L'estremizzazione della fisicità, lo strampalato esercizio di tattiche, le tecnologie di allenamento msucolare, sono tutti frutti del progresso e come tali vanno respirati. Ma chiudiamo un attimo gli occhi e ricordiamoci di quando eravamo bambini, di chi volevamo essere, di chi imitavamo l'esultanza.

La mia mitraglia era per un campione venuto dalla polvere argentina, celebrato oggi da migliaia di tifosi in tachicardia. Sono certo che anche i vostri ricordi, ora, vi strapperanno un sorriso.

Che non vive più con noi.