Nel momento in cui viene presa la decisione di dar vita alla rifondazione di una squadra attraverso la cessione o il mancato rinnovo di giocatori fondamentali in campo e nello spogliatoio, andrebbe annunciato il rinnovo del contratto dell’allenatore a cui affidare l’apertura di un nuovo ciclo. Cosa che non è avvenuta con Luciano Spalletti. Nè il tecnico toscano nè Aurelio De Laurentiis hanno ovviamente interesse a discuterne. Eventualmente l’annata partenopea dovesse andare bene – conquistando un posto tra le prime 4 – si assisterà allora alla telenovela del rinnovo dell’allenatore di Certaldo in stile Mertens; casomai la stagione azzurra si concluderà negativamente, ecco servito il capro espiatorio. Allo stesso modo, ripetere il piazzamento Champions darebbe all’attuale tecnico del Napoli un ulteriore lustro alla sua carriera – e potere contrattuale; in caso contrario, ha sempre l’alibi di una squadra che gli è stata smontata dopo aver sfiorato lo scudetto.

Perdere contemporaneamente i migliori giocatori e dunque mezza squadra, non può non far nascere il timore di una perdita di competitività. Come riuscire a combaciare rifondazione e capacità di restare ai vertici è un dubbio che ADL non ha per nulla fugato. Per certi versi era già stato chiaro, quando poco prima di annunciare Luciano Spalletti allenatore aveva dichiarato la volontà di tagliare il monte ingaggi, cosa che l’ex Roma e Inter ha accettato. Non c’era nemmeno bisogno di spiegare il ritorno da parte del club ad una politica fatta di ricerca di potenziali e giovani crack (vedi Kvaratskhelia o lo stesso Raspadori), dagli ingaggi “leggeri”, con la speranza che possano esplodere in maglia azzurra e allo stesso tempo ambire a piazzamenti importanti. Scommesse, non certezze. Una filosofia che in passato ha funzionato, che non è escluso che possa nuovamente concretizzarsi, ma che non tiene conto che rispetto a qualche anno fa la concorrenza è aumentata. S’è verificato il ritorno delle due milanesi, in più la sorpresa – ormai quasi certezza – Atalanta e la nuova Roma americana. Sullo sfondo Lazio e Fiorentina. Proprio la sfida scudetto con Milan e Inter nel corso dello scorso campionato, inattesa dalla piazza azzurra e probabilmente dallo stesso presidente partenopeo, ha reso più complicata la rivoluzione della rosa. Un’ennesima scelta sbagliata quella di De Laurentiis, non nella sostanza ma nei tempi, dettaglio che un imprenditore non può permettersi.

Una rifondazione graduale avrebbe forse “depresso” meno l’ambiente Napoli, oggi profondamente preoccupato oltrechè spaccato. Una società che, conscia di perdere Insigne, che immagina di poter vendere Koulibaly e Fabiàn anzichè perderli a zero e con già una bella sforbiciata di stipendi, prova a trattenere Ospina e Mertens, senza dar vita a soap opera sui rinnovi e sulla questione portiere. Un squadra ancora incompleta e il timore che possa restare tale ha dato vita a un’estate senza calcio stressante, in modo quasi paradossale. Non dovrebbe, ma la mancanza di partite vere sposta le attenzioni altrove, generando un chiacchiericcio continuo e infinito su qualsiasi cosa gravita nell’orbita di una squadra, tanto da non raccapezzarcisi, direbbe Totò. La tifoseria napoletana, ad esempio, potrebbe avere un'imponenza e un'importanza difficilmente eguagliabile. Anche perché, a differenza di tante altre grandi città, non possiede un'altra squadra. E forse è proprio questo il punto, la causa che determina la presenza di più fazioni che la fanno apparire più un partito politico anziché un tifo. Perché non si tratta di essere solo pro o contro De Laurentiis, ma anche pro o contro quel giocatore, pro o contro l'allenatore di turno. Fazioni ognuno con il suo capo mantra. Il quale, appena declama, gli appartenenti alla sua corrente copiano e incollano quanto scritto o detto. Fosse solo questo, nulla di anormale. Non si può pensarla tutti allo stesso modo. Il problema sorge nel momento in cui si avverte l'odio tra avversari di fazioni opposte. Ci si insulta, ci si attribuiscono epiteti con l'intento di offendere, ci si fa la guerra sui social. Giornalisti che diventano ultras, ultras che diventano giornalisti. Persone convinte che dicendo la propria possono influenzare le scelte di una proprietà.

Non sia mai che trovi giuste le considerazioni di questa o quella fazione: saresti allo stesso tempo un servo del padrone, o un ingrato, o semplicemente uno che “non capisce niente”. Questo succede quando ognuno pensa di possedere la verità di ogni cosa, di essere migliore degli altri. Perché oggi le capacità e la bravura si misurano in like, non in cosa effettivamente scrivi, o dici. Parafrasando Murakami Haruki in “Il mestiere dello scrittore”, "la qualità non ha alcuna forma concreta, ma la prende quando riceve premi e medaglie. E la gente la nota". Al di là della critica, sacrosanta quando costruttiva e stupida quando faziosa - ma che non ha niente a che vedere con l'odio e gli insulti – varrebbe la pena ricordarsi che, alla fine, si è tutti tifosi delle stessa squadra, il Napoli, che si appresta ad affrontare una stagione contorniata di dubbi e in piena rifondazione.