Sei arrivato a Napoli senza essere nemmeno la prima scelta. Ricordo che in quell’estate del 2015 il presidente De Laurentiis contattò prima Unai Emery e poi, quando era in trattativa con te, si rivolse a Vincenzo Montella che si era appena liberato dalla Fiorentina. Non nego che in tanti storcemmo la bocca: venivamo da un biennio con Rafa Benitez in panchina e seppure il suo secondo anno arrivò quinto in campionato, era riuscito a vincere una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e sfiorato la finale di Europa League. Tuttavia c’era bisogno di ripartire dopo un campionato non esaltante e nessuno si aspettava che la riscossa dovesse arrivare da uno che aveva alle spalle un solo anno di serie A. Bastò una tua frase per farmi capire che personaggio eri: “La tuta? Sono un allenatore, non un sarto”. Da quel momento per me fu amore (sportivo, sia chiaro) e nuovamente infransi una regola che mi ero imposto, quella di non affezionarmi a nessuno, che fosse allenatore o giocatore. “Solo la maglia” mi ripetevo, “gli allenatori e i giocatori passano”. Era successo con Mazzarri, era accaduto con Cavani. Troppo forte era stata la delusione di vederli andare via tanto da impormi di non legarmi più a nessuno. Poi sei arrivato tu e ci sono ricascato.

Mi sono trovato per la prima volta di fronte ad una squadra che non giocava semplicemente a calcio, ma creava spettacolo. Ogni gara era pura estasi, uno stropicciare continuo degli occhi. Mai visto un Napoli così, mai vista una squadra italiana giocare in quel modo. Un pressing forsennato perché il controllo del pallone doveva essere tuo, il diktat di non buttare mai via la palla, pure se sotto attacco, pure se occorreva giocare nei pressi della propria area di rigore. Il risultato? Trasformare l’azione da difensiva a offensiva, sempre tenendo la palla a terra, facendola correre velocemente con pochi tocchi. E quel possesso continuato che coinvolgeva tutti i giocatori finanche il portiere, facendo viaggiare in pallone avanti e indietro, da destra a sinistra, fino a trovare lo spazio da attaccare, fino quasi ad entrare col pallone in porta. È stato quel gioco che ha consentito al Napoli di tornare a competere in campionato, di provare a sfidare la squadra più forte. È stato quel gioco a sopperire i limiti di una squadra fatta di giocatori normali ma diventati fenomenali sotto la tua guida. È stato quel gioco che ha permesso al Napoli di essere al centro dell’attenzione di mezza Europa: impossibile non osservare quella squadra che disegnava arte (cit. Marco Giampaolo). Sei stato tu l’artefice di tutto, sei stato capace di far rinascere la speranza in un intero popolo che in quegli anni è tornato a sognare, a rialzare la testa, fiero di quanto la propria squadra stesse facendo. Una sorta di riscatto sociale, perché a Napoli il calcio è anche questo. Una sorta di rivincita verso quella squadra del nord i cui tanti tifosi spesso hanno insultato e deriso il popolo napoletano, anche e soprattutto al di fuori dell’ambito sportivo.

E allora il popolo partenopeo ti ha eletto suo comandante, leader indiscusso di undici meravigliose “facce di cazzo” per cui ogni parola e azione era legge. Eravamo consapevoli che ci avresti fatto sognare, che ci avresti portato vicino a quello scudetto che manca ormai da troppo tempo e che per poco non sei riuscito a conquistare. E nonostante il tuo triennio non ha portato nessun trofeo, Napoli ti amava lo stesso, tanto che ogni tifoso azzurro ha tifato per te e per il tuo Chelsea nella finale di Europa League contro l’Arsenal, festeggiando ad ogni gol come se avesse segnato Insigne o Mertens. Perché Napoli e i napoletani sono così, sentimentalmente romantici. Basta poco per innamorarsi, basta far vivere loro un sogno per osannarti e idolatrarti, al di là del risultato. E poiché il napoletano è un uomo di sentimento, è facile ferirlo.

Perché vedi, ora c’è questa storia che sei il nuovo allenatore della Juventus. Nulla di male, se non fosse che hai accettato il ruolo di comandante che ti abbiamo consegnato, dichiarando “fosse per me andrei fino al Palazzo a prendere il potere”; se non fosse che ti sei sempre dichiarato un tifoso del Napoli e un napoletano nonostante fossi cresciuto in Toscana e ora sei il tecnico di una squadra i cui tifosi invitano il Vesuvio a lavarci con il fuoco, ci accolgono con i sacchi di immondizia e ti hanno preso per il culo quando hai dichiarato di aver perso lo scudetto in albergo; se non fosse che quello scudetto lo abbiamo perso anche perché Orsato in quell’Inter-Juventus decise che Vecino era da espellere mentre Pjanic era solo da ammonire. Lo so che la professionalità è tutto nel mondo del lavoro, lo so che il calcio è sempre più professione e meno romanticismo. So anche che è troppo forte la tentazione di prendere il posto di quell’allenatore che ti ha sempre punzecchiato con frasi del tipo “chi vince è più bravo” o “il bel gioco non riempie la bacheca”. Vuoi dare una lezione a colui che ha sempre ritenuto inutile il bel gioco e le prestazioni di livello preferendo la concretezza, non capendo che invece è proprio il mancato gioco ad aver spinto Agnelli a dargli il benservito e a puntare su di te.

Ci hai tradito mister, perché hai scelto di condividere con altri quello che c’è stato tra di noi e tra solo tra noi doveva rimanere, come un ricordo che sarebbe rimasto intatto nel tempo. E invece ti sei liberato con velocità e facilità della tua dichiarata napoletanità, appellandoti alla professionalità e rinnegando perfino la tua tuta se te lo chiedessero, quella tuta che era diventata il simbolo della tua personalità e identità. Per dirla con un linguaggio vicino ai tuoi ideali, è come se Marx abbracciasse all’improvviso il capitalismo. È come se se nel bel mezzo della rivoluzione d'ottobre, Lenin accettasse diventare un servitore dello zar. Come scrive George Orwell ne "La fattoria degli animali", alla fine il maiale si è alzato ed ha iniziato a camminare su due zampe.

Che poi, cosa ci sei andato a fare a Torino? Lo sai che lì “vincere è l’unica cosa che conta” mentre tu che sei (o forse eri) un “sognatore” vuoi che alla vittoria ci si arrivi secondo le tue idee? Lo sai che “vincere è l’unica cosa che conta” significa che non avrai chissà quale tempo a disposizione per seguire il tuo calcio, tu che hai sempre predicato tempo per far girare la squadra secondo i tuoi meccanismi? Lo sai che lì un tipo in tuta (sempre se non ci rinunci), schietto, senza peli sulla lingua e senza il bon ton del famoso “stile Juventus” farà storcere la bocca a un ambiente spesso intriso di snobismo? A questo punto, penso che saresti capace anche di rinunciare al tuo credo calcistico. Sembrava davvero che fossi una bella eccezione in un mondo conformista: hai scelto di essere uno dei tanti.