Per me si va nella città dolente” recitava Dante nel Canto III dell’Inferno della Divina Commedia. Il viaggio che il Sommo si accingeva a compiere in compagnia di Virgilio inizia dall’Antinferno, dove scorre il fiume Acheronte. Un luogo di passaggio in cui le anime si preparano a raggiungere il posto in cui sconteranno la loro pena eterna. Appunto, l’Inferno. Parafrasando il poeta toscano, “l’Antinferno sportivo” della Nazionale guidata da Roberto Mancini si manifesta nella semifinale dei playoff contro la Macedonia del Nord. Niente mondiali in Qatar – per la seconda volta consecutiva. Niente “Paradiso calcistico”, un nuovo inferno, come quello già vissuto 5 anni fa nel famoso doppio confronto contro la Svezia. Che però oggi fa ancora più male, anche solo per il semplice fatto che il tutto accade da Campioni d’Europa.

Già, l’Europeo, al quale oggi è inutile appellarsi e, allo stesso tempo, è indecoroso derubricarlo a semplice colpo di fortuna. Perché la coppa alzata a Wembley è stata più che meritata. È stato il coronamento di un lavoro che ha visto la Nazionale rimanere imbattuta per oltre 2 anni, esprimere un calcio diverso da quello nostrano, rigenerare l’entusiasmo di un intero Paese, tanto da far ritenere impossibile il ripetersi di quanto accaduto sotto la gestione Ventura. Tuttavia, quello che inizia in un torneo – che sia Europeo o Mondiale – poi finisce lì. Sono manifestazioni particolari in cui in 20-30 giorni tutto deve funzionare alla perfezione. E oggi, alla luce di quanto accaduto giovedì, quel successo avvalora maggiormente quanto fatto da Roberto Mancini. In una maniera quasi assurda, la vittoria dell’Europeo ha nascosto, annebbiato e prolungato le crepe di un intero movimento calcistico. Indicare nella persona del C.t. il principale o l’unico colpevole, sarebbe un esercizio miope che non giova al calcio italiano, che andrebbe riformato e che invece tirerà a campare, come già accaduto dopo la Svezia.

Berardi, Raspadori (Sassuolo) e Joao Pedro (Cagliari). Questo, in parte, il nostro attacco in campo contro i macedoni. Poi Immobile, che in Nazionale subisce la pressione, e Insigne, già pronto per il Canada. Le tre squadre più titolate del nostro campionato – Juventus, Inter e Milan – e che da sempre dettano legge il Serie A, non esprimono nessun attaccante. Basterebbe già questo come punto di partenza per una profonda riflessione. Quando il materiale (umano) scarseggia, va coltivato; se non c’è, va creato. Non si può dunque prescindere dall’investimento nei settori giovanili: è lì che occorre cominciare a concentrarsi.

Spesso ci si chiede perché le squadre di Serie A faticano in Europa. Verrebbe da rispondere che - semplicemente - i più forti giocano altrove. Che senso ha dunque affidarci a giocatori non italiani, meno forti ma più – e spesso troppo – pagati rispetto ad un giovane coltivato in casa? Quei giovani che a 18-22 anni non sono ancora considerati pronti per la Serie A, vengono mandati in giro tra Serie B e Serie C, mentre in altri campionati hanno presenza ed esperienza.
Aumentare la percentuale di italiani nei vivai e - perché no? - nelle squadre maggiori; creare una Serie C costituita soprattutto dalle seconde squadre della massima divisione; inasprire la severità nei confronti di società non in grado di gestirsi, che campano di sotterfugi e di prestiti senza nessuna voglia di investire (quanti club di categorie inferiori ogni anno non riescono a iscriversi o falliscono?); aumentare di conseguenza la competitività delle serie minori.
Finché, tuttavia, in Italia si rimarrà legati alla cultura dell’interesse personale, alla logica del risultato, della gestione fondata sull’oggi e non sul domani e di conseguenza all’assenza della prospettiva fatto di investimenti che richiedono tempo e pazienza, difficilmente si assisterà a cambiamenti. Del resto il calcio, come la politica, è lo specchio della nostra società. “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese”, direbbe James Freeman Clarke. Un aforisma che rispecchia pienamente la stragrande maggioranza dei presidenti di calcio.

Il timore, se le cose resteranno tali, è che si potrà solo sperare che di tanto in tanto una nuova Wembley possa realizzarsi. Il timore è di tornare tra 4 anni a compiere gli stessi discorsi. Intanto, due mondiali consecutivi senza l’Italia, da Campioni d’Europa.
Che altro deve accadere per rivoluzionare il calcio italiano?