Il Napoli è un po’ come il Paese Italia, necessita da tempo di riforme strutturali che però vengono ignorate. Se nello Stivale ciò non avviene poiché, in parte, si fa fatica a far convergere interessi diversi delle forze di coalizione che nel tempo si sono succedute, a Partenope non c’è democrazia. Decide uno, e sempre: Aurelio De Laurentiis, monarca autoritario per quanto concerne la società azzurra, re democratico per ciò che riguarda il campo.
Anche nel calcio, raggiunto l’apice la parabola comincia la sua fase discendente. Il culmine dell’era ADL si è raggiunto al terzo anno del governo Sarri, quando gli azzurri sfiorarono il terzo scudetto della loro storia. Le strade con il segretario comunista, poi divenuto capitalista, si separarono nel 2018: la fine di un ciclo che avrebbe potuto anche indurre a cambiamenti più ampi sul piano tecnico. Cosa che non avvenne: furono mantenuti tutti i prezzi pregiati della rosa – ad eccezione di Jorginho – a disposizione del nuovo premier Carlo Ancelotti.

Una scelta allora applaudita e condivisa: vendere, dopo l’addio di Sarri, giocatori del calibro di Koulibaly, Allan, Mertens, Callejon in nome del ciclo concluso avrebbe quasi impedito al monarca di rimettere piede nella sua città. Invocare dunque ora, con il senno di poi, la mancata rivoluzione di allora, è un esercizio giornalistico poco condivisibile. Non attuarla dopo l’addio di Ancelotti post ammutinamento, cancellandolo quasi non fosse mai accaduto, è un demerito del presidente partenopeo. Come la sua assenza e i suoi silenzi degli ultimi tempi: in qualunque azienda l’assenza del capo è sinonimo di confusione. Come il non dotarsi di una struttura societaria degna di essere considerata da grande squadra che possa fare le sue veci nei periodi di assenza. E come non risolvere carenze tattiche di lungo corso: terzino sinistro, regista e punta da 20 gol a campionato. E ora De Laurentiis rischia di trovarsela davanti la rivoluzione tecnica, non per scelta, ma per necessità.  

Chi segue il calcio da anni sa che alcune statistiche sono importanti. La squadra che alla fine della stagione si laurea campione d’Italia subisce mediamente 4 sconfitte. L’eccezione è stata la Juventus dello scorso campionato: 7 sconfitte, che però non hanno impedito alla squadra di Sarri di aggiudicarsi il nono scudetto consecutivo. Il Napoli ha già incassato 6 sconfitte in 18 partite: dunque discorso scudetto chiuso, nonostante abbia una partita in meno. Resta da inseguire la qualificazione alla prossima Champions League, il vero principale traguardo degli azzurri. Una società che come quella di De Laurentiis insegue da sempre l’obiettivo del bilancio in attivo, può conseguirlo puntando su due voci: le plusvalenze e gli incassi derivanti dalla Champions. Mancare l’accesso per due anni di seguito alla più importante competizione europea sarebbe disastroso da un punto di vista economico, soprattutto in questo periodo pandemico che già ha causato conseguenze finanziarie negative. Questo costringerebbe ADL ad una rivoluzione: forte riduzione degli investimenti, abbattimento del monte ingaggi, cessioni e ridimensionamento delle ambizioni.

L’attenzione si sposta allora su chi ha il compito di guidare il Napoli almeno al quarto posto: Gennaro Gattuso.
Il tecnico azzurro ha la sua parte di colpe in questo andamento molto altalenante della squadra, come quello di non riuscire a trovare il modo per dare un minimo di continuità a prestazioni e risultati. O quello di fornire spiegazioni che ormai sono enunciate come fossero filastrocche. Eppure, il Napoli soffre di questi atteggiamenti non da questa stagione, ma già da quando sulla panchina partenopea c’era seduto Ancelotti. Che i calciatori dunque siano anche loro causa della situazione è più che plausibile: non è certo colpa di Gattuso vedere errori come quelli che hanno regalato gol e vittoria al Verona. Si ritorna dunque sempre al punto di partenza: può essere tempo per forti cambiamenti.
Con o senza Gennaro Gattuso, con o senza Champions. Non si può sempre campare di rendita.