TB12
Il momento a cui non sarai mai abbastanza preparato, se ce n’è uno. 
Penso che Federico Buffa, il mio Federico Buffa, avrebbe detto più o meno così.

<pausa di riflessione>

Faccio onestamente fatica a scrivere questo pezzo. Di norma vado di getto, perché per me è uno sfogo. Metto giù lettere e poi parole e quindi frasi senza apparente sforzo anche se con poche pretese. Il lavoro, semmai, è correggere. 
Oggi è diverso, oggi le mie dita sembrano inceppate, faticano a muoversi tra vocali e consonanti, tentennano… Penso che sarebbe stato così solo se avessi già provato un’impresa simile il giorno dell’addio al calcio di Paolo Maldini, unico bipede che mi senta di accomunare all’uomo (uomo?) di cui mi accingo a parlare.

<un bel respiro>

La domanda che mi martella in testa è questa: quante altre volte potrà capitare di godermi l’intera carriera di un giocatore che nel proprio sport è unanimemente considerato il più forte di sempre? 
La risposta, non essendo poi così tante le discipline che seguo con passione, è piuttosto semplice per non dire scontata. Mai più. 
Basta fare qualche calcolo… La vita media dei maschi italiani, secondo le statistiche che trovo su internet, è di 79,7 anni. Non considererei come minimo i primi sei, durante i quali si è sicuramente troppo piccoli per poter apprezzare un certo tipo di spettacolo, ma terrei buoni tutti quelli che ci portano - entità ultraterrene piacendo - fino all’eterno riposo. Fa 73,7 periodi di 365 giorni l’uno. Vuoi o non vuoi, quaranta me li sono giocati, me ne restano circa 39. Qua le mie capacità con i numeri si arrestano. Non sono in grado di calcolare statisticamente le possibilità che questa fortuna possa ripetersi da qua alla fine della mia vita, ma andando a braccio direi che sono piuttosto basse. E quindi, profondamente ispirato da un articolo che ho letto proprio stasera ed in controtendenza rispetto a ciò che avrei certamente fatto altrimenti, i riferimenti numerici si fermano qua, perché dinanzi al più grande di tutti - e soltanto in quel caso - non hanno più alcun significato.

<flashback>

Un giovane me, in un grande magazzino di Boston in piena estate dell’anno 2000 dopo Cristo. Fuori un caldo notevole, dentro un freddo irreale. All’americana. Stand e stand di t-shirt più o meno mettibili, qualcuna oggettivamente figa, la maggior parte buona neppure per il mare. In mezzo a pile di robaccia, una serie di maglie da football. Considerando il prezzo, sono certamente delle repliche, ma in Italia le porto volentieri comunque… Internet è di là da venire, eBay ed Amazon non ne parliamo, quindi procurarsi certi articoli non è precisamente all’ordine del giorno. Mi erano sempre piaciuti i Pittsburgh Steelers, tenevo appeso in camera il poster di Rod Woodson, detto “Lightning Rod” ed avevo visto O’Donnell lanciare due intercetti nel Super Bowl contro i fantastici Cowboys di Smith, Aikman, Irvin e Sanders, ma quell’estate tra i caffè di Boston ed i fari del Maine, aveva sancito il mio vero innamoramento in termini di NFL. E poi di jerseys giallonere non ce n’erano comunque. A lanciare per i Patriots c’è il vecchio Drew Beldsoe (Tom Brady è un giovanotto appena scelto all’ultimo giro e nessuno sa chi sia) e proprio la sua è una delle maglie che finiscono nel carrello, insieme a quella di Brett Favre dei Green Bay Packers e - ironia della sorte - di Warrick Dunn dei Tampa Bay Buccaneers. 

<ouverture>

Stagione 2001 e prima da titolare per Tom Brady, Super Bowl XXXVI: a due minuti dalla fine e senza timeout i Patriots sono sulla propria linea delle 15 yards ed il punteggio contro i Rams è 17 pari. Mentre tutti si aspettano i supplementari, il novellino quarterback guida la squadra fino al field goal range, che Adam Vinatieri trasforma per il primo anello nella storia della franchigia. È appena iniziata la leggenda che si protrarrà per le successive ventuno stagioni.

<Kobe>

Cosa c’entra Kobe Bryant con Tom Brady? Niente. E tutto.
Io non ero un tifoso di Kobe, così come non lo ero dei Lakers. Da buon Bulls fan i giallo viola rappresentavano ai miei occhi dei nemici storici e, nonostante la grandezza dei campioni che avevano vestito quella gloriosa casacca, mi riusciva difficile andare oltre alla rivalità sportiva. Poi c’è stato il ritiro di Bryant ed un appassionato tifoso avversario gli ha dedicato una lettera meravigliosa che non ricordo parola per parola, ma il cui messaggio generale è impresso nitidamente nella mia memoria: ti ho odiato così tanto da amarti. 
Nessuno - e questo sia detto sempre con il massimo rispetto per gli uomini - odia il giocatore scarso delle compagini altrui. Si odia il campione, il fuoriclasse, quello che con le proprie magie determina la sorte dei match e, più facilmente, quello che condanna la tua squadra preferita alle sconfitte ed agli sfottò. 
Si tratta spesso di un amore-odio, dell’invidiosa contemplazione di un talento immenso e della disperazione di non poterlo davvero abbracciare e celebrare perché divisi dai colori sociali di una differente franchigia, che come è noto non si può tradire una volta che la si sia scelta… 
E dunque Kobe dicevo, quale esempio perfetto dell’immensità del campione il quale, una volta appese le scarpe al chiodo, pungola la coscienza sportiva dei suoi nemici fino a fargli ammettere che sì, mentre inveivano contro di lui ed il suo step back non hanno proprio potuto fare a meno di ammirarlo e di pensare quanto lo avrebbero amato se solo avesse scelto una canotta diversa all’inizio della sua incredibile carriera. Kobe quale mio personalissimo simulacro e pomo della discordia, quale elemento di una grande presa di coscienza: si può essere grandi detrattori soltanto di qualcuno che si ammira, poiché altrimenti prevarrà l’indifferenza. 
Non si poteva essere indifferenti a Kobe Bryant e non si può essere indifferenti a Tom Brady: o lo si ama o lo si odia, le vie di mezzo non sono previste. 
La sublimazione del tutto datata 26 gennaio 2020 è altra storia e non è il caso di parlarne adesso. Al proposito mi limito solo ad un piccolo slogan, che trovo comunque doveroso: “Mamba out. Mamba Forever.”

<adieu>

Quando un personaggio della dimensione di Tom Brady decide - infine - di lasciare, si crea un vuoto. Nella squadra in cui militava, nel ruolo, nell’intera lega, nello sport in generale. L’errore più grande che si possa commettere è quello di cercarne il successore, nonostante sia ovvio che succederà ed anzi che stia già succedendo. Risiede nella natura più essenziale dell’uomo la tendenza al paragone, la ricerca di un termine di riferimento. Ma quando smette uno come Brady, semplicemente, finisce un’era e non vi è modo di sfuggire all’ineluttabilità di questa considerazione.
Se c’è una bellezza nello sport è però proprio quella di accompagnarsi alla vita umana passo dopo passo e, perciò, di proseguire, di andare oltre, di continuare. Ecco dunque che tutti gli straordinari record di questo campione immenso diventeranno le pietre miliari che segnano il cammino degli atleti attuali e di quelli prossimi venturi, di giovani che affrontano il college con le loro borse di studio e le sue figurine autografate nel borsello e di bambini che muovono in questo istante i loro primi passi senza avere la più pallida idea di chi diamine sia quel tale che, dal 2000 al 2020, anno più anno meno, ha tracciato per loro una strada durissima ma non impossibile da percorrere. Perché i record sono effimeri e destinati presto o tardi ad essere superati. Non ci è dato però sapere quando e quelli del numero 12 hanno tutta l’aria di essere costruiti per resistere allo scorrere del tempo con un discreto smalto.

<Grazie, Tom>

Come posso concludere se non con il più sentito ringraziamento di cui sia capace? Non è esclusivamente per lui, ma lo è in buona parte se ho passato nottate quasi in bianco per vedere lo sport d’oltre oceano, se ho provato a giocarci, se ne sono così affascinato. Rimarranno per sempre impressi nei miei occhi quei drive degli ultimi minuti e la sua calma imperturbabilità mentre tutto intorno a lui sembrava sgretolarsi e le possibilità di vittoria diventavano infinitesimali, assottigliandosi secondo dopo secondo, snap dopo snap. Tom Brady è stato il comandante perfetto, quello che non aveva bisogno di urlare, forse neppure di parlare. Ai suoi compagni era sufficiente osservarlo per sapere precisamente cosa dovevano fare. Potevano uscire dall’huddle con la certezza che, se ognuno di loro svolgeva il suo compito, se tutti quanti si preoccupavano della loro competenza, lui non avrebbe sbagliato e li avrebbe condotti alla vittoria. Ha vinto tanto ed ha perso paradossalmente tanto. È stato amato, ma è stato maggiormente odiato. Come dicevo poco sopra, è il destino dei grandi campioni. 
Tom Brady lascia il football, ma non lo lascerà mai, così come non lo lasceremo mai noi che l’abbiamo vissuto.
Come direbbe un certo Tony D’Amato: “Addio. Au revoir. Ci vedremo quando le nuvole tornano a casa.”