Inizio, doverosamente, dissociandomi dal falso moralismo: Donnarumma e Calhanoglu via a zero sono un brutto colpo per il Milan. Il primo è difficilmente sostituibile quanto a valori tecnici, il secondo si sostituirà, ma - pur se a sprazzi - gli abbiamo visto fare grandi cose in mezzo al campo e quindi brucia che sia voluto andare via, per di più accasandosi all’Inter.  In questi giorni s’è sentito di tutto, sull’argomento. Colpa di Raiola, colpa di Donnarumma, colpa di Maldini, colpa di Elliot, colpa di Gazidis, colpa dello stadio, colpa del sistema, colpa dell’UEFA… La mia visione è che non ci siano particolari colpe ascrivibili a qualcuno. C’è un calcio come sport professionistico di altissimo livello, dove due giocatori non hanno trovato l’accordo per rinnovare il contratto di lavoro con la loro società ed hanno preferito valutare prima ed accettare poi proposte di tipologia diversa. Così facendo, hanno sicuramente ben curato i propri interessi economici, perché hanno spuntato aumenti del 20% (il portiere) e del 25% (il trequartista), almeno stando alle fonti ufficiose ed alle cifre che i media riportano.

Va tutto bene, fin qui. Il MA arriva adesso e riguarda l’atteggiamento di questi due calciatori, che prima di essere tali sono sportivi e uomini e persone. Era il 13 Agosto 2006 ed un me stesso venticinquenne, già provato dall’addio di Andriy Shevchenko al Milan in un’epoca nella quale lasciare i rossoneri era poco meno che eretico, guardava - incredulo - il suo idolo di pochi mesi prima baciare la maglia del Chelsea, dopo il gol che valeva il pareggio contro il Liverpool nella Supercoppa d’Inghilterra. Anni dopo, l’ucraino ha tentato di derubricare il gesto, affermando che voleva tirare su la maglia e quella gli si è attaccata alla faccia. Non l’ho mai perdonato ed ero contrario al suo ritorno a Milano, poi rivelatosi fallimentare.
Perché? 
Non perché Sheva ha baciato quella maglia, ma: perché tutto questo livore da parte mia? Beh, qua si trova l’essenza del MA… Si smette di parlare di professionismo, di tattica, di guadagni e di scelte professionali e di vita. Si abbandona il solido terreno del realismo oggettivo e ci si addentra nel pericoloso acquitrino costituito dai sentimenti.
Se rientrate nel novero di coloro che non hanno mai compreso perché del calcio si dica che “non è solo un gioco”, difficilmente potrete cogliere il senso di quello che sto per dire, MA: per chi il calcio lo ama, la squadra è un po’ come una fidanzata o un fidanzato. 
Inizia tutto con una infatuazione, che può essere più o meno bambinesca. 
Ad un certo momento, senza capire bene come sia potuto succedere, una cosa che fino al giorno prima poteva esserci o non esserci senza spostarti di un millimetro, inizia a calamitare la tua attenzione… Lì per lì non lo noti molto, è semplice istinto. Sposti lo sguardo, ma torni rapidamente a concentrarti su quello che stavi facendo e non dai peso alla cosa. Giorno dopo giorno, però, la percezione cambia. Prendi lentamente ma inesorabilmente coscienza del fatto che la tua sta diventando una ricerca consapevole. Un interesse pieno di curiosità sostituisce quel baluginìo ai margini del campo visivo. Non si tratta ancora di una passione vera, ma di qualcosa che comprendi di voler esplorare ed approfondire. Ti accorgi di voler spendere del tempo per sapere certe cose, di volerne trascorrere altro a parlarne con i tuoi amici o perfino con chi conosci poco o anche per nulla. Ti scopri insospettabilmente pronto a batterti per difendere l’onore della maglia che rappresenta la tua squadra, a volte travalicando i limiti del buon senso. Il che riporta fino alla domanda iniziale: perché? Perché mi suscita sentimenti così forti?
Perché - al di là delle facili ironie che questo paragone potrebbe scatenare - c’è una differenza sostanziale tra una fidanzata ed una squadra di calcio e consiste nella volontà di condivisione. Noi tifosi, non siamo gelosi della nostra squadra di calcio. 
È un amore platonico MA viscerale, che siamo felici di condividere con tutti coloro che ci appaiono degni. 
È estensivamente campanilistico, MA stranamente aggregante. 
È un amore, per molti MA non per tutti.
Eppure è innegabilmente un amore.

Per spiegare cosa accade quando un calciatore bacia la maglia della nostra squadra, è necessario variare il paragone. Non è come se quel bacio fosse destinato alla nostra fidanzata, è più come se il destinatario fosse nostro figlia o nostra figlio.
Di fronte a questa manifestazione siamo guardinghi, titubanti, combattuti tra la voglia di accettare questa figura terza ed il bisogno di respingerla, dominati dal nostro naturale istinto di protezione. Per aprirci abbiamo bisogno di un po’ di tempo, chi più chi meno. Infine, proprio come potrebbe accadere con un futuro genero, quando ci appare chiaro che questa persona è un bene per la nostra famiglia abbandoniamo le riserve e lo accogliamo, non limitandoci ad accettarlo, MA spingendoci spesso ad amarlo dello stesso amore che riserviamo ai nostri colori.
Ed eccoci, perciò, arrivati al dunque… 
Cari calciatori, voi dovete o, forse, potete soltanto fare i professionisti. È lecito che misuriate le vostre prestazioni sportive e che il metro ne sia la retribuzione. Non siete obbligati ad attribuire un peso specifico ai sentimenti, perché l’amore dei tifosi può non essere un valore, per voi.
MA…
Ciò che non è lecito, è che baciate quella maglia godendo del nostro amore e poi pretendiate che quel gesto non significhi nulla. Perché noi - a differenza vostra - non siamo retribuiti e, per noi, quello è l’unico peso e l’unica misura.
Se baciate la nostra maglia, dovete assumervi la responsabilità di quel gesto, perché se noi rispettiamo le vostre scelte professionali, con fatica, voi siete tenuti a rispettare il nostro amore, incondizionatamente.