Che cavolo c’entra il Milan con Giannis Antetokounmpo, vi starete forse chiedendo? 
Beh, ve lo spiego subito.
Prima di tutto, io sono un amante dello sport e della sportività in genere. Non amo solo il calcio, non lo amo esclusivamente. Sta al primo posto, questo sì, ma non è che i gradini del mio podio siano l’uno molto più elevato dell’altro, ecco. Diciamo che svetta di qualche centimetro. Siccome si sta parlando di centimetri, mi viene già facile spiegare perché abbia deciso di scrivere un articolo sull’argomento: Giannis Antetokounmpo è un ragazzone alto 2 metri ed 11 centimetri e quindi, almeno per un giorno, capite bene che la ridotta distanza tra il primo ed il secondo o terzo gradino del podio può ritenersi bella che colmata.
Sì, ma perché il Milan dicevamo? Eh… perché il Milan. Perché purtroppo - e credeteci o no, ho già i lucciconi mentre digito queste lettere sulla tastiera - lassù nell’Olimpo o nel Paradiso o dovunque altro preferiate purché sia situato al di sopra della vostra testa, c’è un signore con un sorriso sardonico ed inconfondibile che osserva ciò che sta accadendo quaggiù sulla nostra terra. Potreste non seguire il basket, perfino detestarlo, ma non ci mettereste più di tre secondi a dirmi il nome, se solo poteste vederlo. Questo signore se ne è andato presto, molto presto. È stato vittima di un terrificante incidente in elicottero, viveva in California nella città degli Angeli, lo avete visto indossare l’8 ed il 24 con i colori giallo e viola per 20 anni e si chiamava Kobe Bryant. 

Ora, se dovessi limitarmi ad una fredda cronaca giornalistica di certo non potrei avere queste immagini negli occhi, ma fatto sta che oggi parlo di storie favolose e quindi non mi riesce difficile figurarmi il Black Mamba con addosso vestiti che cambiano di secondo in secondo, come per magia. Si alternano la prima e la seconda casacca dei Lakers, quella degli USA, qualche felpa con sopra il logo della sua scuola basket, un paio di t-shirt rigorosamente Nike, un bello smoking di taglio sartoriale e la maglia rossonera, appunto, che rappresentava la sua fede calcistica. 

Il 26 gennaio del 2020, intorno alle 9:50, Kobe insieme a sua figlia Gianna ed altre sette persone se ne sono andate per sempre.
Le leggende però, come è risaputo, tendono a sublimare se stesse. Raramente, capita che la morte ci appaia come un passaggio di status quasi ovvio, attraverso il quale un soggetto di natura umana come la nostra va oltre al piano materiale, trasfigurando il proprio mito. E questo è senz’altro uno di quei casi.
Capita, nel frattempo, che il 6 dicembre del 1994 nasca nella periferia di Atene un bambino concepito in Nigeria, da un papà ed una mamma già genitori ma trasferitisi nel frattempo alla ricerca di un futuro migliore. Come tanti. Come troppi. Questo bambino senz’altro sfortunato nasce in realtà con uno di quei tesori impossibili da mettere in banca e che potrebbero facilmente rimanere per sempre sepolti sotto metri di un terreno fatto di sfortuna, malnutrizione, imprevisti, pregiudizi, burocrazia ed altre mille e mille motivazioni. Nasce con un tesoro genetico che dapprima coltiva in prima persona facedosi 10 km a piedi tutti i giorni pur di allenarsi con il fratello, poi viene sbozzato dalle prime scuole basket greche e da Spiros Velliniatis, il primo allenatore. Quindi viene trapiantato non senza qualche scossone nel nuovo terreno fertile degli Stati Uniti e della NBA e poi sboccia definitivamente nel Wisconsin, in un posto freddo che forse non casualmente prende il proprio nome dall’indiano dei nativi Millioke, che significava “la buona terra” ed oggi è noto ai più come Milwaukee.

La storia di Giannis è una di quelle tipiche dell’american dream. Vendeva borse contraffatte nella periferia di Atene, ha iniziato a giocare a basket facendo mille sacrifici, è approdato in America e ci è rimasto quasi per caso, visto che senza la sua famiglia aveva dichiarato che se ne sarebbe andato ed ai genitori la cittadinanza è stata concessa solamente al terzo ed ultimo tentativo (dopo il quale non avrebbero più potuto richiederla), è stato scelto alla quindicesima scelta del primo giro dai Bucks nel 2013 ed ha rischiato di non prendere parte ad una delle sue prime partite in NBA perché aveva mandato tutti i soldi alla famiglia in Grecia, rimanendo senza un dollaro per prendere l'autobus. Ha chiuso la stagione da rookie con 6,8 punti di media, con 12,7 quella da sophomore, è salito a 16,9 nel terzo anno, 22,9 nel quarto, 26,9 nel quinto. Ad Agosto di quel 2017 manda un tweet a Kobe Bryant che era solito lanciare sfide ai vari giocatori giovani della lega, reclamandone una per sé. La risposta del Black Mamba è lapidaria:  MVP. E questo sarà nel 2019 e di nuovo nel 2020. Sarebbe già nella Hall of Fame solo per questo, giacché ci sono riusciti solo altri 11 giocatori prima, ma lui va oltre. Va molto oltre. E poco prima di volarsene via per l’ultima volta, ci aveva voluto mettere ancora lo zampino quel furbacchione di Kobe, con il suo sorriso di denti bianchissimi, stabilendo il traguardo successivo per il “suo ragazzone”: il titolo NBA.

 

Se avete già letto qualcosa di mio su queste pagine, ormai potreste sapere che mi piacciono i bastian contrari, quelli che sfidano il sistema attuale e dimostrano che non solo questo è possibile, ma che si può anche lasciare il tavolo con le tasche piene di fiches. E Giannis, nell’epoca dei Big Three inaugurata da LeBron James e dal suo annuncio social prima di approdare a Miami insieme a Bosh e Wade, ha scelto di provare a vincere alla vecchia maniera. Michael Jordan una volta disse che non aveva mai pensato di andare a giocare insieme a Magic e Larry Bird, perché era troppo impegnato a batterli. Antetokounmpo si è lasciato rimbalzare addosso tutte le voci che lo volevano in partenza verso lidi più remunerativi e vincenti ad inizio stagione ed ha firmato un’estensione contrattuale di 5 anni con la squadra che gli aveva dato fiducia nel 2013, portandola - senza avere in quintetto altri nomi altrettanto altisonanti - al titolo che mancava da 50 anni, vincendo il premio di MVP delle Finals e chiudendo la serie contro i Phoenix Suns sul 4 a 2 con una partita da 50 punti, 14 rimbalzi e 5 stoppate. 

 

Non sto a sciorinare i dati sulle iniziative benefiche che nel frattempo Giannis ha messo in piedi nella sua terra d’origine e nelle sue città adottive, perché se avete avuto la pazienza di arrivare in fondo all’articolo ritengo non ci sia bisogno di altri stimoli. Mi piace immagine un lettore con un sorriso accennato, che si mastica queste righe pensando a The Greek Freak che rilascia le interviste del post partita abbracciando i due trofei appena conquistati, con quegli occhi che se li osservi bene riesci ancora a vederci dentro la periferia di Atene. Mi piace immaginare che come Giannis anche voi, sollevando un istante gli occhi al cielo in questo giorno in cui la palla a spicchi arancioni si avvicina a quella a scacchi bianchi e neri, dedichiate un ricordo al mito ed alla leggenda di Kobe Bryant ed a Gigì.

 

Mamba out. Mamba Forever.