A gennaio, alla fine del girone d’andata, avevamo dato per spacciato il Crotone: “già retrocesso”, “inadeguato”. Ci eravamo sbagliati. 

Da calabrese non lo speravo, ma era quello che mostrava la classifica, ma non il campo, avevamo fatto i conti con la matematica, con quei miseri nove punti conquistati in 20 partite che rendevano impensabile qualsiasi discorso sulla salvezza.
Non avevamo preso in considerazione i miracoli. Una categoria un po’ troppo spesso abusata nella retorica del pallone, ma che a Crotone negli ultimi due anni è diventata davvero realtà.

Difficile dire se valga più la promozione dello scorso anno o la permanenza in Serie A.
Probabilmente questo risultato è ancora più straordinario. Per mille ragioni. Perché in fondo in Serie B gli exploit di squadre di provincia, con tanti giovani ed un bel gruppo, sono quasi all’ordine del giorno: vedi l’ultimo caso della Spal, ma anche i precedenti di Carpi e Novara.
Perché ripetersi è sempre più difficile. E perché i numeri del girone d’andata erano schiaccianti: undici partite solo per cogliere la prima vittoria, un distacco dalla zona salvezza superiore ai punti conquistati in classifica.

In fondo il Crotone inadeguato lo era per davvero, con un gruppo costruito con pochi spiccioli, un paio di giovani di belle speranze e tanti carneadi pescati tra categorie minori e campionati stranieri; un allenatore che veniva da due pessime esperienze e che in molti davano per finito; una rosa forse inferiore anche a quella della promozione dello scorso anno (e per giunta indebolita nel mercato di gennaio, con Palladino ceduto ad una diretta concorrente quale il Genoa). In fondo il Crotone non deve ringraziare nessuno: la salvezza se l’è meritata tutta sul campo.
Nessun regalo: “Il miracolo magari serviva per quest’ultima partita vista la situazione in classifica, tutto il resto è lavoro”, ha detto Davide Nicola dopo i festeggiamenti.

Ed è questa la vera favola del Crotone: in una Serie A mediocre, fatta per lo più di società senz’anima, formazioni che non hanno mostrato alcun attaccamento alla maglia ma una volta visto sfumato l’obiettivo massimo o raggiunto quello minimo hanno sbracato in maniera poco decorosa, i calabresi sono stati gli unici a metterci davvero cuore, sacrificiopassione. Faticando in settimana in allenamento e lottando ogni domenica dal primo all’ultimo minuto, scontrandosi quotidianamente con i propri limiti per superarli nel momento più importante. E alla fine ha avuto ragione Nicola. L’allenatore che credeva nel lavoro, non nei miracoli.