Ci sono "segni" del destino che ci inducono a scelte che altrimenti sarebbero di difficile comprensione persino per chi queste scelte le compie.
Nella Sicilia ante anni '60 la lavastoviglie non si conosceva, la lavatrice si comprava firmando "a peso" decine di fogli con su scritto "Pagherò..." e la TV la si andava a vedere in qualche BAR di elevato standing; qualche auto circolava, ma per lo più FIAT 500 o 600, pochi Maggiolini e qualche Americana.
Il mezzo di trasporto principale era la bicicletta, che la planetaria popolarità degli italianissimi Bartali e Coppi era entrata in tutte le case italiane; piano piano si era anche fatta conoscere Vespa della Piaggio, promulgata dal celebre film "Vacanze Romane" film Holliwoodiano girato a Roma; uscito nel 1953 con Gregory Peck e la Grande Audrey Hepburn.
I ragazzi praticavano sostanzialmente un solo sport: il calcio, perchè era facile organizzarsi per giocarci ovunque, anche in strada, con le porte limitate da due barattoli e un pallone di stracci legato stretto con lo spago...
Questo era quello che si vedeva dall'esterno, ma nella testa dei ragazzini c'era uno stadio colmo di spettatori pronti a osannare le loro giocate che accompagnavano con propria radiocronaca personalizzata.
Nelle divise ufficiali delle squadre professionistiche le magliette erano minimali, nessuna scritta tanto meno i nomi dei calciatori, solo la numerazione, rigorosamente dall'1 all'11, e connessa a ruoli specifici 1- portiere, 2 -terzino destro- 3 - terzino sinistro- 4- mediano di spinta, 5- stopper, 6- libero, 7- ala destra. 8- mezz'ala destra, 9- centroavanti, 10- mezz'ala sinistra, 11 - ala sinistra.
Ovvio che in quelle radiocronache simulate i ragazzini usassero il nome dei loro idoli...
Uscii anche io in strada, nonostante papà non volesse... scuola e casa: non doveva esserci altro nell'educazione impartita dai genitori dell'epoca, stare in strada rappresentava un rischio eccessivo per il proprio figlio; scuola di vita certo, ma violenta, blasfema, con possibili cattive compagnie, con tanta maleducazione. Quindi ecco spiegato il divieto.
Ma chi poteva resistere al richiamo della strada? Abitavamo ad un piano terra; quando i miei amici "dovendo fare le squadre" bussavano alla finestra (ma talvolta tiravano dei sassolini...) io ero già pronto a uscire: scavalcavo il davanzale un attraversato il piccolo giardino, seminascosto da un banano che non mi ricordo avesse mai fatto un solo frutto, arrivavo al cancello ed ero in strada.

La via era asfaltata, ma polverosa; di auto non se ne vedevano quasi mai e delimitare il campo da gioco era immediato; le squadre si componevano sempre allo stesso modo: due ragazzi facevano a "pari o dispari" e sceglievano i compagni. Raramente si arrivava ad essere 11 contro 11, più facilmente 5 contro 5. Ma se si era meno il portiere era libero di giocare anche fuori porta nella duplice veste.
Nelle mie radiocronache io ero il Grande MITO della mia infanzia OMAR ENRIQUE SIVORI. Mi giravo i calzini -già corti- perchè LUI riscoltava i calzettoni sulle caviglie; imitavo i SUOI gesti almeno quelli che ricordavo, i suoi dribbling, quelli che potevo, i suoi gol, ne facevo ne facevo.
Per i più giovani lettori conviene ricordare che Sivori era un giocatore funambolico, di piede sinistro capace di dribbling e virtuosismi addirittura irridenti per i suoi avversari, spesso umiliati con il "tunnel" di cui l'argentino fu uno dei primi portabandiera.
Insignito del Pallone d'oro 1961, fu considerato -fino alla nascita di Maradona- il più grande al mondo dopo Pelé.
Ragazzi, non uno qualunque, io ero LUI...

Ma i "segni" dovevano ancora arrivare. 
Il primo si verificò il 24/11/1963, avevo da poco compiuto 10 anni. Due anni prima era venuto a mancare il mio papà e -le difficoltà di trovare un lavoro stabile- indusse mamma a trasferire la famiglia (lei e 4 figli maggiorenni più il sottoscritto bimbo), prima a Piacenza e successivamente a Lainate, poco distante da Milano.
Quella domenica di novembre si giocava a San Siro Milan contro Juventus, il giovane Golden Boy del Milan Gianni Rivera contro la "perla bianca" del calcio mondiale Sivori. Alfonso mio fratello decise di portarmi allo stadio: la prima volta. Mio fratello simpatizzava per il Milan, non so perchè, fino a quel giorno neanche lo sapevo.
In campo la partita fu elettrizzante, con tanti colpi di scena e risultato sempre in bilico, tant'è che, dopo il vantaggio rossonero, la Juve riuscì a capovolgerlo e, per la mia felicità, Sivori siglò il vantaggio bianconero. Pochi minuti dopo ancora LUI a tu per tu col portiere del Milan, segnava il terzo gol.
Balzato in piedi mi accorsi del piccolo gesto con cui Alfonso si coprì la fronte: era rimasto seduto, immobile, lo sguardo dispiaciuto... Sentii dentro una specie di malessere nello stomaco, come una stretta e fui sollevato nel vedere che il gol veniva annullato. Ma ormai non parteggiavo più per nessuno, solo che quei ragazzi in divisa rossonera ce la stavano mettendo tutta per pareggiare.
l'11 del Milan, Fortunato di nome e di fatto, mise di testa in rete un'illuminazione di Rivera: stavolta fu Alfonso ad alzarsi e io a restare seduto, ma ero sorridente, grato al DIO del calcio di quell'epilogo che accontentava tutti.

L'anno dopo un altro "segno"; ero giunto al Collegio orfanotrofio di Loreto a seguito degli anni di militanza nella Guardia di Finanza da parte di papà; in quella parte di mondo, dove si comincia a comprendere la vita dalla parte sbagliata, quella della sofferenza, grazie ad un paio di suore che si occupavano di noi, avevamo però la gioia di giocare a calcio.
Un bellissimo campo in erba dove 22 ragazzini dai 10 ai 13 anni si affrontavano la domenica mattina dopo la messa; magicamente le porte del collegio si aprivano ed erano tanti gli spettatori veri che si sedevano sull'erba, appena fuori le righe del campo.
Potevamo sognare ancora di essere famosi, di venire applauditi se non osannati. Le due squadre avevano divise differenti, sicuramente acquistate presso l'emporio di articoli sportivi, da Totò il nostro amico fac totum: giardiniere, contadino, elettricista, idraulico, allenatore, ma soprattutto amico e confidente. L'unico a cui si poteva aprire il cuore, o chiedere qualcosa, lui c'era.
Aveva scelto le divise della Juventus e del Milan: le sorteggiammo e alla mia squadra toccarono i colori rossoneri... Più chiaro di cosi cosa aspettarsi dal destino?
Ora che giocavo con quella maglia, con quei colori addosso, sentivo di amarli; scoprire la loro storia, ricordarsi il suo fondatore Kilpin, passare dalla sofferenza, le sconfitte, la retrocessione in serie B, per poi vivere il trentennio di Silvio Berlusconi, in cima all'Italia all'Europa al Mondo.
Il Milan la prima squadra italiana a vincere in Europa 1963; il Milan capace di uscire Campione Intercontinentale da quella ignominiosa caccia all'uomo in Argentina contro l'Estudiantes, contro un Governo, contro una dittatura 1969; Il Milan capace di portare oltre 200.000 tifosi nelle ramblas di Barcellona e poi riempire e colorare di rossonero l'intero stadio 1989; Il Milan capace di raccontare storie come quella della dinastia Maldini.
Il Milan che in qualunque epoca, in qualunque momento storico stesse vivendo, non ha mai perso l'amore dei suoi tifosi, oggi come ieri.

Cosa avrei potuto desiderare di più e di meglio che essere uno come loro, uno di loro?
Di condividere ogni giorno un privilegio marchiato a fuoco nella nostra anima.
Di chiudere gli occhi e vestire di realtà un sogno, quello di tutti noi rossoneri: il MILAN.