Solo un istante. Immaginatevi di chiudere gli occhi, concentrare il vostro pensiero. Esso, proiettatelo a due decadi fa. Ecco, parlo a voi, milanisti e non: citate un solo calciatore vi sia rimasto impresso. Non è complesso intuire la vostra risposta. Andrij Shevchenko. Ne sono certo, anche io l’avrei fatto.

Da un'altra galassia
Ciò che è stato per l’universo calcistico Andrij è qualcosa che ne va al di fuori, extraterrestre, un marziano proveniente da un pianeta interstellare, galattico nelle scelte, unico nelle movenze, spaziale ( quale la dimensione dove collocarlo ) dinanzi alla porta.
Il bomber di ghiaccio, imperturbabile. Le distanze tra la rete e la porta quando vi era l’ucraino erano risicate, ed anzi le due costanti presto si incontravano. La seconda si recava al di fuori dal nostro pianeta, lei cercava l’intesa con l’uomo, che da lassù, discendeva privo di problematiche, annientando qualsivoglia remora ed avversario gli si ponessero. L’obiettivo era lapalissiano. La porta, era l’unica visione del Re dell’Est, e per tale ragione il primo rendez-vous avveniva nelle terre a lui consuete, quelle troppo distanti per ciascun giocatore umano.
Shevchenko ha impresso viscerali attimi nelle vene dei cuori milanisti, i quali pulsano a ricordarlo, anche dieci anni dopo.
Il campione dall’animo buono, idolatrato in quanto umile nell’atteggiarsi, con tratti nobili, rispettato dai rivali. Era glaciale, il freddo sapersi collocare eccelso nell’area rivale. La sfera la incontrava, la curava ed accarezzava.

In possesso della letalità per opporre attimi complicati e renderli focali a suo vantaggio, traeva da essa l’eleganza necessaria a farsi notare, la pulizia del gesto non conforme alle punte di peso.

Andrij era il Re anche per ciò: l’istantanea di compiere il 100% nel singolo appoggio, essenziale e regale. E mai si placava, forniva dedizione ad ogni fase del gioco, simbolo del suo carattere. Altruista e spietato. La correttezza in ogni suo mezzo lo ha diversificato dalla massa dei campioni ingrati, e lo ha reso raro nel porsi illustre.
La figura dell’ucraino si è avvalsa di tonalità celestiali, virtuosa negli spazi finali a deciderlo tra il pianeta dei comuni o quello dei gotha. I cieli, metafora del percorso intrapreso dalla leggenda, si restringevano contestualizzando all’area di rigore, assaporata col successo del vincitore in ogni suo approdo.
Esso era trionfale. Le remore erano estinte nel favorire l’effettiva sentenza. La certezza nel cercare l’obiettivo si tramutava in ogni occasione in ciò che aspirava, frutto del sacrificio compiuto per realizzarlo.

Il tocco del re
Ed è per ciò che si categorizza quale Re. Imperiale nello stacco, nella corsa, nell’umore. Prima di tutto vi era il saper esser uomo, coniugato con l’irripetibile pregio d’aver costituito mediante la sua carriera emozioni incontrastabili per gli appassionati. Queste, come il Re, si descrivono nell’aver regalato attimi iconici.
L’immagine del Dio in Patria, dell’aver condotto con sé la brama dei bambini di ripercorrere le sue imprese. Shevchenko era il Re del Popolo, ha goduto della stima collettiva, traendone gli stimoli necessari, ed anzi, continuando a lavorarci, come da indole irrefrenabile e paragonabile al gladiatore che combatte sino all’ultima forza, per giungere in alto.
Andrij ha condotto con onore i tratti distintivi, elevandoli. E ad ogni goal il tocco di Sheva si materializzava, puntuale come il treno elvetico che lo conduceva all’appuntamento successivo. Il goal. Radicato al suo interno lo stimolo costante, reprimendo i tentativi di interromperlo. Al cospetto di tali azioni,coloro in grado di arrestarsi erano i tifosi, gli unici soggetti in grado di assistere alle sue pregevolezze. Le difese avversarie erano penetrate, sublimizzate ed incredule al cospetto di colui che vestiva la 7.
Il tocco di Sheva istituiva le speranze del suo popolo, rinvigoriva situazione cupe, confermava le favorevoli con il suo pizzico, un estro di talento che creava di più della semplice rete. Il frammento delle peculiarità atte a tributarlo, il marchio indelebile timbrato sul terreno di gioco, come nelle menti di ognuno, mai svaniranno.

Le origini come lezione di vita
Nel percorso all’apogeo vi è l’infanzia, periodo che lo ha forgiato. Il Re dell’Est è cresciuto nella mitigata Ucraina, poverissima, nella quale le uniche ricchezze erano i valori emersi dei pochi. Valori morali, la semplicità delle rinunce e delle scelte complicate, un contesto duro, soprattutto se attraversi una fase delicata della vita. Kiev, città che lo ha cullato agli inizi, era distante dal suo minuscolo villaggio, composto da 350 anime, pronte a battersi per l’ultima fetta di pane rimasta.
Il calcio era un concetto distante, ed ai tempi, visto come occidentale. Nella malinconia dei più, Shevchenko è maturato con la consapevolezza di porre a suo favore la lotta quotidiana per il solo scopo di tirare due calci al pallone.
Le origini lo hanno segnato, ed Andrij le ha condotte come suo insegnamento.
La miseria degli stenti, ampliata dalla vicinanza al disastro di Chernobyl, impongono in lui ideali genuini, etici, con dei principi sui cui far leva per diversificarsi dalla massa ingorda ed avida che calca scenari di spicco. Al contrario, nel suo esser proclamato Re, ha definito la figura della bontà interiore. Mai fuori posto, presente per i compagni. E lì, il suo popolo, non lo ha scordato e ha reso grazia a chi, consapevole della sua fermezza, ha reciprocamente riconosciuto i meriti della sua terra, povera per gli incoscienti, ma ricca di semplicità contagiosa, la malattia che, forse, sorbire per alcuni sarebbe la chiave della nascita. Sorbire e far loro, come il Re.

"Ho scoperto un diamante", decantava cosi il suo mentore, Valery Lobanovskyi, uomo che ne fece dell’allora ragazzino una leggenda. Sino alla strenua li conduceva Valery, ma tra i tanti, emergeva il piccolo Andrij, che udiva diligente, salvo poi applicare le filosofie del suo primo tecnico, alla Dinamo Kiev.
Il diamante raffinato, mai ripudiato, osannato nei luoghi più remoti, acclamato a suon di bellezze pregiate. E la musica, San Siro, risuona, fiera e talvolta nostalgica. Nella ricerca all’erede del 7, solo ad avvicinare chi ha ammaliato con la medesima casacca. E costui, capace di replicarlo, non si è rilevato.
Le ore ed ore, ardue, ad allenarsi. I crismi del campione intravisti dalla costante ricerca del migliorarsi, anche quando in vetta. Il rilievo con il quale attingeva alla preparazione si rimembra autorevole, rigoroso nell’analizzarsi e limare i difetti,emerge dai racconti dei compagni, uno su tutti Costacurta che a riguardo disse: “Ricordo la prima settimana d’allenamento di Sheva con noi. Nel giorno delle ripetute, alla fine di più di due ore e mezza di allenamento, stavamo tornando tutti negli spogliatoi. Andrij un po’ titubante e con un italiano zoppicante mi chiese:’Billy scusa quando inizia allenamenti?’. Credevo che mi stesse prendendo per il culo… Ma poi ho capito che diceva sul serio quando sono riuscito e lui continuava ad allenarsi da solo”.

Dedizione e passione, all’infinito. Le doti ultimali, il clou per varcare la soglia dei perfezionisti, innati meticolosi. Da Kiev, uno tra questi, è emerso. Scrupoloso, onesto ed accurato. L’usignolo di Kiev. Canta nel suo palesarsi, ed è, una tra le sue molteplici magie. Compone opere nel medesimo istante. Incredibile.
L’usignolo, Re, che ha reso onore al nostro sport.
L’usignolo, dell’estasi.
E Costacurta ha ragione, l’implacabile lavoratore.
L’usignolo, splendente, in grado di sovvertire le leggi ponderate della fisica.
Capace di tutto, abbattuto da nulla.
Il vizio dell’est, dal funesto al chiaro.
Il vizio del campione umano.