La bellezza dell’esultanza azzurra si riflette nelle piazze straripanti di gioia, consapevoli di godersi un momento che va ad offuscare gli altri problemi. E’ come una bolla, un incantesimo che mai vorresti finisse. L’esultanza è una concentrazione di emozione che si sprigiona in un attimo, dalla follia del momento. E’ un episodio che vorresti mai si concludesse, e lo vivi con spensieratezza.
E’ la gioia di tutti, ed essa nasce per un sentimento comune. Raro, perché è un’emozione che può sprigionarsi con frequenze temporali assai elevate.
La storia dell’Italia recente è fatta di scivoloni e poche risalite, sino all’11 Luglio. Credo, quella data non la scordi più nessuno.

La gioia grazie al non fair play British
Gli inventori del football, gli inventori del fair play. Fautori del tutto che si son ritrovati con le briciole del niente. Sconcertante ed amaro prologo, ancor più incrementato da una serie di contraddizioni che rendono più atroce l’insegnamento.
Blateravano “It’s Coming Home”. Tale certezza non si evince spesso, anzi è il più contrario dei comportamenti da tifoso. Sprigionare con fierezza e superbia la bandiera inglese e ripudiare quella del nemico, non definirlo nella sua forza sino al non considerarlo, con l’eccesso che va oltre il principio della sottovalutazione.
Nella loro classe politica lo specchio della società, balorda e con un credo superiore aizzante quanto snervante. Già convinti della successiva vittoria, cantavano. Entusiasmo lecito, se non fosse per la più lapalissiana dimostrazione di sicurezza che ha reso il tutto più “awkward”.
I giorni prima della finale si susseguivano tra i cori della già citata canzone, fiumi di birra e feste. Feste da tripudio, normalmente non ante match.
Da Boris Johnson l’invito ancor più plateale di celebrare già questo successo mediante messaggi gonfi di testardaggine. Il lunedì festante, privo di lavoro e solo nei pub, affermava e non auspicava così il Premier.
Caro inglese, l’umiltà non è mai stata il tuo piatto preferito: di pasta asciutta ne devi ancora mangiare. Fragorosi apprezzamenti al caro Bonucci per questa perla in mondovisione.
I fischi all’Inno di Mameli, cantato con passione dagli italiani. A rispondere il tipico “God save the Queen”. Se cercate in rete troverete solo schiamazzi di parole spiaccicate in mero disordine dal British medio già in avanzato stato di ebbrezza. Più che attaccamento alla canzone più rappresentativa, ennesima rappresentazione della sconfitta.
I video degli sputi sul Tricolore adesso fanno solo più ridere per la pochezza del gesto e l’infimo della situazione, ben oltre il ridicolo.
Il vantaggio dopo due minuti rende il tutto più spettacolare, se al 10’ minuto senti sugli spalti “It’s Coming Home…”.
E’ solo l’inizio, e si evince che è un treno che per loro non passerà più: la sinfonia si ribalta e sul terreno di gioco si trasforma in un dominio nostrano, ad insegnare loro il gioco del football. Se hai Sancho, Saka, Rashford, Mount, Sterling, Kane non puoi permetterti di difendere in 9 nella tua metà campo.
Una lezione di stile che si traduce in un secondo tempo nel quale il tempio si ammutolisce, nascono nelle menti degli inglesi le paure e qualche lieve forma di rispetto, repressa.
Ai rigori è tripudio, con seguente silenzio tombale e fuga. Nel mentre piovono gli insulti razzisti sui social, la famiglia di reale vergognosamente non assiste alla premiazione, cadendo in un complesso d’inferiorità senza precedenti.
Le aggressioni fuori da Wembley, il silenzio nell’attimo della celebrazione. Nessun complimento, poche parole. Nessuno che da quelle parti onori l’impresa italiana, 55.000 mila contro 6.000. Nessuno che parla di umiliazione subita nei 120 minuti.
I giornali aprono con titoli ancora patriottici, mentre nessuno guarda al vero vincitore. Rio Ferdinand e Gary Neville ci consideravano scarsi, poi non li ho più sentiti esprimersi su di noi, cosa staranno pensando?
Rispetto e umiltà sarebbero caratteristiche richieste e questa cocente delusione può solo che far bene agli inglesi, che dal 1966 dovranno aspettare ancora.
All’inizio della settimana questo atteggiamento doveva palesarsi come un vanto, ma presto si è frenato nell’illusione di esso, nella lezione di vita che va oltre il calcio.
Bisogna saper perdere: 25 km più in là, nella stessa città, il nostro Berrettini sorrideva con fierezza nella premiazione, senza nascondersi ed anzi complimentandosi con tale Novak Djokovic. Subire le sconfitte con onore, senza levarsi con disprezzo la medaglia e vincere con stima del rivale. Festeggiare solo alla fine e mai pavoneggiarsi sul carro del vincitore troppo in anticipo, poiché questo nel giorno della partita potrebbe rompersi, e sai che dolore!
Tutti questi episodi hanno reso l’11 Luglio storico, contribuendo ad una vittoria anche umana. E la proclamata superiorità dei Tre Leoni ha reso più intensi i festeggiamenti, ricchi di significato sociale e morale.

L’inizio della fine 
L’Italia intera meritava simil epilogo, degno della sua centenaria storia. Dal 2010 in poi erano giunte solo cocenti delusioni che ho vissuto in tenera età. Il calcio azzurro era sprofondato sia nei club sia con la Nazionale, facendo perdere passione ed alimentando critiche contro un movimento in evidente difficoltà.
L’assenza di profili blasonati e un buio senza precedenti, come se vi fossero solo schiaffi a livello internazionale. Fuori dai radar geocalcistici del mondo per incoronare nuove potenze, mestamente e senza voce in capitolo. Giorni difficili, quando una normale estate del 2018 si è trasformata nell’apice della distanza dal calcio che conta. Era l’11 Novembre 2017 e l’Italia usciva da San Siro in lacrime, tra i fischi di 70.000 mila persone, contro la Svezia degli onesti mestieranti. Pare un’era geologica fa, quando Buffon dovette scusarsi dinanzi alla Nazione intera alle telecamere della Rai.
L’esclusione del Mondiale è un terremoto senza precedenti, in un silenzio assordante, che solo a ripensarci mette i brividi. L’escalation di umiliazioni si era avviata dal Mondiale 2010, con l’uscita ai gironi contro Nuova Zelanda, Paraguay e Slovacchia e continuata poi nel 2014 contro la Costa Rica.
L’Italia derisa all’estero che continuava inesorabilmente a perdere credibilità, impaurita e spaesata contro tutti. Un ciclo finito, privo di ricambio generazionale. Una Federazione allo sbando, vittima di scelte errate. Una squadra senza individualità ne gruppo, abbattuta da un oblio infinito. E’ l’inizio della fine ed urge una rinascita, una rivoluzione che deve sbocciare.

La rinascita
L’annuncio di un timoniere quale Mancini crea entusiasmo. Tuttavia, urge rinnovare. Credere in quei giovani, anche più piccoli. Senza osare non si colgono risultati che si trovano nella parte più lontana dell’emisfero celebrare, quelli che si auspicano ma non si nominano.
Anche ad oggi la nostra cultura calcistica è obsoleta, arretrata rispetto ai modelli europei che hanno il triplo dei nostri profili: non a caso l’età media della Serie A si aggira intorno ai 29 anni. Tanto, troppo.
Quello dell’Europeo è un miracolo con pochi precedenti storici, in un’era complicata, con un organico povero di talento. Eppure la sua vera ricchezza è nel gruppo, nella coesione di esso, nella capacità di unirsi nei momenti complicati. L’abbraccio di Chiellini a Locatelli, il supporto a Spinazzola, la storia di Vialli sono istantanee: dietro al solito calcio esiste anche l’uomo, con forze o debolezze.
Il mese dell’Europeo ha consacrato delle gemme nostrane come Donnarumma e Chiesa, due pedine sulle quali costruire il futuro. Le rinnovate speranze azzurre passano dalla politica delle “linee verdi” avviata da Mancini, in linea con i bisogni del movimento.
L’Italia è nel lotto delle migliori e non ha paura di stupire, anche in Qatar. In silenzio, senza pretese esagerate e con il duro lavoro si è giunti ad un traguardo non auspicato. Questo è un inizio, un altro giorno.
La maggior competizione continentale ci lascia consapevolezza e ci proietta verso nuovi obiettivi, sempre più importanti.
Italia is back.
L’Italia s’è desta!