Il silenzio piombante, disarmante della Champions League, mutilata dal Coronavirus, che non ne ha rovinato la magia che essa sa sfociare. L'Atalanta ha acquisito i tratti di fato, dal silenzio dei giorni duri ha estratto la propria forza. Le sirene non si dimenticano, restano a lungo a marchiare le ferite di un popolo che lavora e si rialza. Il vuoto nelle vite degli abitanti. Erano tempi bui. Ieri sera si giocava più di una partita di calcio, la partita della vita, la volontà di riscatto di chi ripone nella Dea la più bella opportunità. Nulla può rappresentare meglio Berghèm dell’Atalanta, simbolo, grazie al suo cammino, di chi combatte. Gli orobici, gente fiera ed orgogliosa, legata fortemente alle origini della propria terra, un’appartenenza rara al giorno d’oggi, che arricchisce la passione della città, forte e consolidata. E’ la sfida delle sfide contro il Psg, capitale contro semplicità, lo stimolo continuo nel migliorarsi va a frapporre, chi, per implementare il proprio status, piomba sul mercato. Il silenzio finale del Da Luz è scosso unicamente dalle grida avversarie, festanti.

Le immagini valgono più di mille parole. Hateboer, in lacrime. All'89' vi era la voglia di far esplodere l'urlo di gioia, soffocato nei mesi passati, represso e sedimentato, ora a pochi passi dal dimostrarsi. Fa male. Fa male. Osservare il simbolo del riscatto, chi, a marzo, approcciava Valencia avvisando il mondo dell'imminente catastrofe, che già aveva incominciato a provare. Vinceva. Bèrghem mola mia. La città che combatte solitaria. Il mondo inerme. Passano i periodi bui. Le sirene non le puoi negare, sono risonanti. Si vuole riprendere tutto, con uno sguardo laddove si può far realmente osservare cos'è la realtà orobica. Fa male. Perché per arrivare a questo punto è stato compiuto un percorso, pazzo. Tutti abbiamo tifato per la Dea, per l'Italia. La sfida contro il Psg ha fatto comprendere la magnificenza di ciò, che dal nulla, è stato creato.

La più bella delle favole si è interrotta. Le ultime pagine non saranno parole. Voglio scriverle non porgendo la vostra attenzione sullo sconforto, ma sul modello intrapreso da Percassi. Ieri, infatti, si è concluso solamente il capitolo della più bella delle annate, 2019/2020, sul campo. Quella 2020/2021 sarà la nuova stagione, io sicuramente penso sarà il continuare, ampliare e fortificare l'essere che con il tempo ha posto le basi ad un futuro lucente. Gli inizi, perché, adesso, ci piace essere nostalgici, scorgere il passato. Le prime vittorie importanti, l'Europa League, l'1-5 al Goodison Park, lo scalpo Dortmund, sino ad ieri sera. Bergamo, perché l'Atalanta è l'essenza della sua provenienza, di strada ne ha percorsa. Vorrei però esprimere un desiderio che continui a coronare il miracolo contemporaneo della squadra guidata da Gasperini: osservare i nerazzurri dinanzi il proprio pubblico disputare la competizione, nella propria città, al Gewiss Stadium in fase di rifinitura. Il pubblico nel corso della cavalcata è stato fondamentale, un seguito unico. L'Atalanta deve disputare le sfide con la propria gente, è il suo marchio.

Fa male. Chiunque osservasse la sfida ci ha creduto nel continuare un qualcosa che sarebbe potuto sfociare nell'avvenimento maggiore. Immaginate che storia, concludere la stagione sul tetto d'Europa. Eppure, Bergamo ha raccontato la sua storia, ha folgorato chi non conosceva la piccola oramai grande realtà composta da 122mila persone. Ed allora, il Neymar di turno non deve essere il racconto della serata del Da Luz, vissuta con vanto dai supporters nerazzurri. La sconfitta rappresenta il vanto della strada seguita. Avrei preferito raccontare una Champions con il pubblico. Il calcio è della gente. Chi meglio può rappresentare tale esempio? Loro che, ieri sera, ci hanno deliziati. Hanno costretto due dei migliori calciatori al mondo a dare il loro massimo. Tuchel era impaurito. Voleva solo esultare. L'ha fatto, ma il Psg non è il collettivo, l'ha scampata con la forza dei due singoli. Era opposta ad una vera squadra, la cui unione è il punto di rilievo al quale attingere. La Dea del pressing altissimo, della corsa.

Fa male, si, non lo si può negare, ad un passo dalla semifinale. Bergamo non ha voluto far prevalere il silenzio, ciò che l’ha resa più debole. Sia chiaro, non è negligenza, è il riscatto. Ed ecco che alla siglatura del 2-1, oltre alla delusione, è sfociata la quiete. In un primo secondo il rammarico, inevitabile. Poi però la consapevolezza, ed allora, non è l'amarezza che deve accompagnare il compimento di un traguardo. Fieri, fieri, dannatamente fieri di voi stessi dovete essere, dal primo all'ultimo. Fieri di essere bergamaschi. Avete sconfitto l'oblio, siete cosi dannatamente forti ed unici. Credetemi non mi sono innamorato di altre storie come la vostra. Beh, la vostra è il simbolo del riscatto pallonaro, sociale. Io ho pianto ieri sera. Nelle mie lacrime la vostra gioia di ciò che avete rappresentato, e dimostrerete ancora. Perché il cammino non è concluso, il libro continua. Fieri di voi, l'Italia intera lo è. Avete onorato sino all'ultimo il Tricolore. Io pretendo che l'Italia sia come Bergamo, il suo spirito. Unita, audace, combattente. Tristezza sì, ma ora voglio la gioia. Orgogliosi, festeggiate comunque, ci avete insegnato tanto. Ricorderò a lungo tale periodo, ma non auspico di farlo da solo.

Non perdonerò mai l'ignoranza intorno a questo tema, nel rispetto di chi l’ha vissuta. Non perdonerò chi nega il passato recente, chi lo racconta con superficialità. Lasciate la Champions del capitale con il vostro essere del popolo, il torneo dove ora prevale la moneta. Siete stati la singolarità più splendente nel vuoto degli stadi, la stella che ha brillato. Siate fieri di essere cosi.

Grazie