La bella, bellissima vittoria ottenuta ieri contro un Napoli in crisi proietta la Roma laddove nessuno, all'inizio di questa stagione, pensava potesse arrivare: in quella zona Champions che, si diceva, i giallorossi avrebbero dovuto lottare strenuamente per raggiungere. Di lotte strenue, in realtà, la Roma ne sta conducendo due, ma inaspettate: quella contro la sfortuna che ne sta decimando la rosa, e quella contro decisioni arbitrali discutibili, che le hanno tolto la possibilità di stare ancora più comoda nei quartieri alti della classifica.

Ieri, in uno scontro diretto delicatissimo, la Roma non ha lottato strenuamente. Ha semplicemente sciorinato calcio per 70 minuti su 90, perdendo la bussola in due momenti, o meglio, dopo due episodi precisi: il calcio di rigore fallito da Kolarov (la dimostrazione che è umano anche lui) e l'interruzione del match per i ben noti cori. Risultato: 20 minuti di sterile dominio del Napoli nel primo tempo e la fiammata che ha portato al gol di Milik nel secondo. Se la squadra degli Ancelotti può appellarsi anche alla sfortuna, deve però ritenersi fortunata ad aver subito solamente due gol. Insomma, ieri la Roma ha vinto con merito. In gran parte da attribuire a Fonseca.

Arrivato tra le risatine, schernito per il vestito da Zorro, etichettato come zemaniano dopo l'esordio con il Genoa e catenacciaro dopo il derby, il tecnico portoghese adesso raccoglie consensi unanimi. Non solo perché ha dato un'identità precisa alla squadra, ma perché l'ha fatto in una situazione resa complicatissima da un'incredibile sequela di infortuni. Dovendo affidarsi, di conseguenza, a calciatori su cui tanti, sottoscritto compreso, nutrivano seri dubbi. Senza tornare troppo indietro nel tempo, basta leggere la formazione di ieri. Con il sorprendente Cetin, che macchia un discreto esordio con l'indecisione sul gol del Napoli e l'espulsione all'ultimo minuto (ma senza quel fallo staremmo sicuramente parlando di un altro risultato); l'ormai non più sorprendente Mancini, che gioca da mediano come se l'avesse sempre fatto; il sempre più convincente Kluivert; ma soprattutto il rinato Pastore. Il frutto più evidente del lavoro dell'altro pastore, quello di anime calcistiche, che siede in panchina. 

Javier Pastore è l'emblema della rinascita della Roma, anche se forse, a questo punto, bisognerebbe parlare solo di nascita della Roma di Fonseca. Un calciatore che quest'estate si è provato in tutti i modi a mettere alla porta, senza risultati. D'altronde non è facile rifilare a chicchessia uno che da l'impressione di non essere più un atleta, ma con uno stipendio da top player. Non hanno abboccato nemmeno in Oriente, vicino o lontano che sia. Fonseca se l'è ritrovato lì, ai margini di una rosa profonda, giovane e di qualità, ma venuta progressivamente meno. A quel punto, il tecnico portoghese non aveva praticamente scelta. Ha dovuto puntare su di lui, ma lo ha fatto in modo estremamente intelligente. Ha cominciato dosandone le apparizioni, nel tentativo di fargli ritrovare la familiarità perduta con le partite vere. Ha lavorato sulla testa, prima ancora che sul fisico, di un uomo svuotato di ogni sentimento positivo. Una sorta di vuoto a rendere, ma con una classe e un'intelligenza calcistica che pochi possono vantare. 

Javier Pastore si è accorto di questo tecnico portoghese che sembrava puntare su di lui. Forse si è reso conto di non poter perdere l'ultimo vero treno della sua carriera, forse ha realizzato di avere ancora qualcosa da dare con quei piedi fatati. Javier Pastore si è scosso, ha lavorato tanto e bene per riscoprirsi leader tecnico di una squadra che l'anno scorso l'aveva rigettato come un corpo malato rigetta un trapianto incompatibile. La Roma di quest'anno malata non è più, e il trapianto sembra perfettamente riuscito. Pastore è finalmente diventato l'organo funzionante che Monchi ha pagato caro. Certo, ancora non va a pieno regime, ma stiamo parlando di un caso clinico che sembrava irrecuperabile. Javier Pastore si è ripreso la Roma e i suoi tifosi, come dimostra la standing ovation che l'Olimpico gli ha tributato ieri, al momento della sostituzione. Chissà cosa deve aver pensato in quel momento, Javier Pastore. E chissà cosa deve aver pensato Paulo Fonseca. 

Forse quello che entrambi hanno poi reso esplicito davanti a microfoni e taccuini. Che la Roma, cioè, è una squadra che si sta scoprendo forte, molto più forte di quanto si potesse pensare. Ma che non ha ancora vinto niente. Bene ha fatto il tecnico a ribadirlo. A riportare immediatamente tutti con i piedi per terra, da pastore di anime calcistiche qual è. Su tutte, quella dell'altro Pastore. Pastore di avversari che sta ricominciando a portare in giro per il pascolo, pardon, per il campo, come gli suggeriscono testa e piedi fuori dal comune. Se tutto questo porterà a qualcosa di buono ce lo dirà il tempo.
Intanto, lasciateci godere.
Da romanisti: ssagerati, sentimentali, romantici, dall'entusiasmo facile e dalla depressione facilissima. Da tifosi che si stropicciano gli occhi di fronte a tanta grazia. Una Roma che, contro tutto e tutti, si issa al terzo posto, trascinata da una banda di insospettabili. Non è un sogno, non svegliateci.