Parlare di sport e razzismo non è mai semplice, ma ultimamente è diventato praticamente impossibile. Innanzitutto perché un tema così complesso e delicato è diventato il campo di battaglia dove la politica si azzuffa a colpi di ideologie e categorie astratte. Accade così che una parte faccia di tutto per minimizzare episodi indegni di un Paese civile, appellandosi di volta in volta alla goliardia, all’esasperazione o al sempreverde buonsenso, e accusando l’altra di buonismo; mentre l’altra si limita a generici appelli all’umanità, accusando la controparte di razzismo. Un giochino utile solo a polarizzare ulteriormente le rispettive posizioni, e non a proporre qualcosa di intelligente. Specialmente se si parla di sport, anche perché è opinione comune che sport e politica non vadano mischiati. Personalmente, sono d’accordo fino a un certo punto. Tuttavia, ogni intromissione (non soluzione, si badi bene) della politica si rivela inadeguata a contrastare un fenomeno dilagante come quello di cui stiamo parlando. Si ripete così uno schema consolidato: episodio razzista – polemica politica – iniziativa inutile o deleteria. Quest’ultima, rigorosamente a opera degli organi sportivi. E siccome il razzismo è un problema che affligge in particolar modo il calcio, ecco entrare in scena, a turno, leghe e federazione.

In questo primo scorcio di stagione, di polveroni legati a episodi razzisti ce ne sono stati tanti. Di soluzioni, inutile precisarlo, neanche mezza. Non perché non esistano, ma perché è evidente che non possano funzionare a breve termine. Lungi da me salire in cattedra, ma è evidente che il razzismo sia legato a fattori culturali profondamente radicati in alcuni strati della società, e che solo processi a lungo, lunghissimo termine possano quantomeno provare a invertire un trend in costante crescita. Reprimere chiudendo le curve o multando le società non fa altro che spostare il problema altrove, fintantoché non si procede sistematicamente a provvedimenti individuali. D’altra parte, tuttavia, slogan, spot e magliette, purtroppo, servono davvero a poco. Meglio poco che niente, si potrebbe dire. Certo, ma non si può realisticamente pensare che una qualsiasi delle iniziative adottate finora possa contribuire a contrastare ululati, striscioni e compagnia bella che ciclicamente fanno capolino dalle curve di tutta Italia. Men che meno, e qui veniamo alla polemica del giorno, si può immaginare di cambiare qualcosa con un’opera d’arte. Specie se la scelta dell’opera d’arte in questione sembra fatta apposta per scatenare l’ennesimo vespaio, rimediando al calcio italiano l’ennesima figuraccia di portata mondiale.

Sia chiaro, qui non si contesta il valore dell’opera d’arte o dell’artista. Simone Fugazzotto non ha colpe. Lui si limita a esprimere la sua visione del mondo, dipingendo scimmie come metafora dell’uomo. Discutibile? Forse. Ma è comunque una scelta artistica e personale, del tutto innocua in sé.
Ciò che risulta discutibile, invece, è l’idea della Lega Serie A di condurre un’iniziativa antirazzista commissionando ed esponendo in sede un trittico di dipinti raffigurante tali soggetti. Cioè: i calciatori neri sono bersagliati da ululati scimmieschi? Perfetto, per sensibilizzare sul tema facciamo dipingere delle scimmie. Come se, in occasione della Giornata della memoria, ci appuntassimo sui vestiti le tristemente famose stelle gialle. Non è questione di politicamente corretto, ma di cattivo gusto. Per quanto presa in buona fede, la scelta della Lega è, molto semplicemente, una scelta infelice. A poco servono spiegazioni e giustificazioni. Se l’intenzione è diffondere un messaggio di eguaglianza, ricordare che veniamo tutti dalle scimmie (guai a darlo per scontato in tempi di complottismi vari) è un tentativo un po’ debole di fronte a chi rifiuta in primo luogo l’eguaglianza tra esseri umani. Se un bianco dà della scimmia a un nero, difficilmente accoglierà il messaggio, sottile ed elaborato, dietro a tre scimmie dai tratti europei, africani e asiatici. Distorcendo Orwell, al massimo potrà dire che “siamo tutti scimmie, ma qualcuno è più scimmia degli altri”. E giù di ululati e banane.

Insomma, siamo di fronte all’ennesima trovata che, invece di spazzare le nubi dal cielo del calcio italiano, contribuisce ad addensarle. Questa volta, anche con una metafora del tutto involontaria: le famose tre scimmie del “non vedo, non sento, non parlo”. Un simbolo inizialmente positivo, ma che, nel tempo, è diventato sinonimo di omertà. La stessa che avvolge la nostra società, e quindi anche lo sport, sul tema del razzismo. Si fa finta di niente fino a che diventa impossibile evitare l’argomento. Peccato che, puntualmente, si finisca solo per peggiorare la situazione. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Se non l’abbiamo già fatto, siamo vicini a toccare il fondo della bestialità. Invece di ricordarci che bestie lo siamo stati davvero, forse è il caso di prendere atto di milioni di anni di evoluzione. Non per fare la morale a qualcuno, che sarebbe solo controproducente, ma per sperare che, in futuro, non ci sia bisogno di un’opera d’arte per ribadire che siamo tutti eguali.