A chi, come me, piace la musica hip hop, questo potrebbe sembrare l’inizio di un dissing. Per i meno appassionati, in ambito musicale si definisce dissing un brano volto a criticare, più o meno ferocemente, un artista rivale. Io e Stefano Agresti, tuttavia, non siamo minimamente paragonabili sotto il profilo professionale, quindi non possiamo essere rivali. Ma soprattutto non ho intenzione di mancare di rispetto al lavoro del giornalista, quindi vi prego di intendere quanto segue come la risposta di un semplice tifoso romanista al suo pezzo di ieri, dal titolo “Pallotta lascia la Roma: vittorie zero e campioni ceduti, il suo fallimento in 10 punti”.

Chi ha avuto la sventura di imbattersi in uno qualsiasi dei miei articoli su questo blog, avrà sicuramente percepito i miei sentimenti verso James Pallotta. Per i più fortunati, riassumo brevemente. Io non amo James Pallotta. Penso che sia un pessimo presidente, e non gli perdonerò mai i tanti errori commessi con la Roma, tra cui, ovviamente, c’è l’incapacità di alzare un qualsiasi trofeo con cui impreziosire la fin troppo scarna bacheca romanista. Di conseguenza, non posso che essere d’accordo con Agresti, quando, per esempio, scrive che “le mancate vittorie sono l’aspetto più evidente e “misurabile” del fallimento di Pallotta”, a maggior ragione perché “le aveva promesse, non solo auspicate, al momento dell’acquisto della società”.
Assolutamente niente da dire sul primo punto del decalogo.

Qualcosa da dire, invece, ce l’ho su altri punti attraverso cui Agresti analizza il fallimento di Pallotta come presidente della Roma.

“2. Nel 2011 ha acquistato una società che appena un anno prima era andata a un passo (in senso reale, fallendo la penultima partita) dall’impresa di strappare lo scudetto all’Inter di Mourinho; la rivende adesso lontanissima dai club migliori del nostro campionato. Oggi l’obiettivo della Roma non è lo scudetto, come allora, ma la Champions, e questo buon inizio di stagione non può bastare a dimenticare quanto si siano ridotte le ambizioni giallorosse.

Ma come lontanissima dai migliori club del nostro campionato? Sotto la gestione di Pallotta, in campionato, la Roma è arrivata 2° o 3° cinque volte su otto, raggiungendo, inoltre, una semifinale di Champions League (solo la Juventus ha fatto meglio). Guardando alla stagione in corso, poi, la Roma è quarta davanti a club come Napoli e Milan, partiti per fare un campionato di vertice e ora impantanati a metà classifica, tra enormi difficoltà. Semmai, Pallotta ha fatto della Roma una delle squadre che, nell’ultimo decennio, hanno lottato con più continuità per le posizioni di vertice.

“3. Non ha costruito lo stadio, per il quale dovrebbero arrivare a breve le ultime autorizzazioni. Colpa della burocrazia e della politica italiane? Non solo. Se ha scelto partner sbagliati e individuato zone della città sbagliate, è quanto meno corresponsabile.

Preso atto delle valutazioni sbagliate da Pallotta, la politica ha evidentemente enormi colpe nel ritardo con cui ancora va avanti il progetto stadio. Che, sotto la giunta Marino, era praticamente a un passo dall’approvazione. L’uscita di scena del sindaco dem, seguito da un commissario prima e della Raggi poi, ha, di fatto, bloccato l’intero progetto. Le politiche del Movimento 5 Stelle hanno costretto la Roma, inoltre, a lunghe e costose revisioni del progetto iniziale, rallentando ulteriormente un iter già lento e difficile. Sullo stadio, le colpe di Pallotta sono infinitesimali rispetto a quelle della politica.

4. Non ha sistemato i conti, tant’è vero che oggi Friedkin trova 272 milioni di debiti e 150 milioni di ricapitalizzazione ai quali fare fronte.

Cosa si intende per sistemare i conti? Se Pallotta non avesse sistemato i conti, oggi la Roma avrebbe i libri in tribunale. L’attuale posizione finanziaria della Roma è frutto di due elementi: la mancata crescita dei ricavi, dovuta anche al blocco del progetto stadio; e di conseguenza, il tentativo di restare competitivi vivendo costantemente al di sopra delle proprie possibilità. Lo dimostra il mostruoso monte ingaggi che grava sui bilanci del club, cui si fa fronte attraverso aumenti di capitale. Non sono un esperto in campo economico, ma è il classico cane che si morde la coda. Se non aumento i ricavi non posso essere competitivo, ma voglio esserlo lo stesso, e quindi mi indebito, sperando di ripianare i debiti con i futuri ricavi. Se i ricavi non aumentano, sono da capo a dodici.  

5. Ha fallito l’obiettivo di cui al punto 4 benché abbia ceduto una marea di calciatori a prezzi spesso elevatissimi: Benatia e Marquinhos, Alisson e Salah, Pjanic e Romagnoli, Rudiger e Nainggolan, Emerson Palmieri e Strootman, Paredes e Lamela.”

Per venderli, i campioni devi anche acquistarli. Ma chissà perché, questo non vale per la Roma. Ogni calciatore che arriva a Roma è un bidone fino al momento in cui viene ceduto (di solito con una sostanziosa plusvalenza, come riconosce anche Agresti). Di tutti i nomi fatti, poi, andrebbero controllate le carriere. Benatia ha fallito a Monaco, ha fatto benino alla Juve e ora gioca negli Emirati. Marquinhos si è arenato al PSG. Alisson e Salah sono gli unici, veri rimpianti. Pjanic (liberatosi con la clausola, non venduto) fa ammattire i tifosi della Juventus una domenica sì e una no. Romagnoli chi? Rudiger fa bene al Chelsea. Epurato da Conte dopo una stagione anonima sotto la guida del suo mentore Spalletti, Nainggolan è tornato a Cagliari. Per Emerson Palmieri vale più o meno il discorso di Rudiger. Strootman non è più un calciatore da anni. Paredes si è perso tra San Pietroburgo e Parigi. Lamela fa la comparsa al Tottenham. Penso basti.

6. Non ha risolto il problema del monte ingaggi: adesso lo stipendio medio dei giocatori della Roma è secondo in Italia solo a quello della Juve (e ci mancherebbe che fosse superiore anche ai bianconeri…). E senza che tutto questo abbia portato vittorie (vedi punto 1).

Vedi risposta al punto 4.

“8. Ha allontanato senza rispetto due monumenti come Totti e De Rossi: non ci sono certezze sul fatto che uno fosse adatto a fare il dirigente e che l’altro fosse ancora in grado di giocare ad alto livello, ma i modi usati per metterli alla porta sono stati inaccettabili.”

Questo è ormai un falso storico. La verità, per quanto faccia male ammetterlo, è che Pallotta non ha mai messo alla porta nessuno. La Roma ha offerto ruoli dirigenziali sia a Totti che a De Rossi. Il primo ha dato le dimissioni perché voleva più spazio di quello che la Roma era disposta a concedergli, mentre il secondo ha rifiutato l’offerta perché voleva giocare ancora. La società non era dello stesso avviso e De Rossi è andato a (non) giocare in Argentina. Nessuno li ha costretti a lasciare la Roma. Se c’è qualcosa da imputare alla società, è l’incapacità di gestire le separazioni sotto il profilo comunicativo. Ma in questo Pallotta c’entra ben poco.

9. Ha distrutto allenatori (ne ha avuti otto) e dirigenti con un’arroganza insospettabile: arrivati tutti come fenomeni, sono stati licenziati che se fossero incapaci. Ricordate l’enfasi con cui sono stati celebrati nel tempo Sabatini e Garcia, Monchi e Di Francesco, e le male parole con le quali sono stati invece allontanati?”

Ancora: che c’entra Pallotta? Allenatori e dirigenti si sono distrutti sempre da soli, facendo scelte discutibili che hanno inciso sui risultati sportivi, e che il tritacarne della piazza non gli ha perdonato. A distruggere Sabatini sono stati i mercati frenetici e la conseguente fama di “steccarolo”. Dopo il record di punti della storia della Roma, Garcia ha perso sé stesso e, di conseguenza, la squadra. Monchi ha avuto fin troppa libertà di imperversare, producendo disastri che stiamo pagando ancora oggi. Di Francesco, dal canto suo, è riuscito nell’impresa di passare dalle stelle della Champions alle stalle dell’esonero, mettendo in mostra tutti i suoi limiti. Su Spalletti, chissà perché tralasciato, taccio perché rischierei di essere impopolare. Dico solo che la Roma non competitiva di Pallotta, con il toscano in panchina, ha chiuso un campionato a -4 dalla Juventus, infrangendo il record di punti di Garcia.

“10. Ha mancato di rispetto alla società e alla città, dalla quale manca addirittura dal settembre del 2018: avete mai visto il proprietario di un club di calcio, o anche di un'azienda qualsiasi, stare lontano dalla propria proprietà sedici mesi?”

Pallotta manca di rispetto a Roma e alla Roma perché se ne sta a casa sua? Ma Tom Werner, il proprietario americano del Liverpool, quante volte all’anno va ad Anfield? Ammetto di non aver capito bene questo punto. Ma, almeno personalmente, a Pallotta contesto un’altra mancanza di rispetto. Quella, cioè, di non aver mollato l’osso molto prima. Se l’avesse fatto, tuttavia, non avrebbe venduto la Roma a quasi 800 milioni, ricavandone un profitto di oltre 150. Una cifra record per la Serie A, che dovrebbe quantomeno far riflettere sui suoi meriti imprenditoriali, riconoscendogli l’ottimo lavoro fatto in termini di risanamento e rilancio del club, preso otto anni fa sull’orlo della bancarotta. Il fallimento di Pallotta è certamente sportivo, come scrive Agresti. Al quale, tuttavia, mi sento di far notare che, se una semifinale di Champions e cinque anni consecutivi di secondi e terzi posti sono pochi per una squadra che “non è mai stata abituata a vincere”, mi chiedo cosa siano (o siano stati) gli anni e anni di oblio di squadre decisamente più blasonate come il Milan o l’Inter, di cui ho sentito e sento parlare sempre troppo poco.


Ma, continua Agresti, il fallimento di Pallotta sta anche nell’incapacità di “coinvolgere i tifosi, spesso maltrattati (il suo «sono fottuti idioti» è entrato nella triste e irriguardosa storia della gestione americana).” A onor del vero, quel “fucking idiots” era diretto alla piccola frangia di tifosi che insultò la madre di Ciro Esposito, e che Pallotta cercò di “isolare” così dalla massa di tifosi sani. Un tentativo giusto nelle intenzioni, ma fin troppo goffo ed esagerato. Anche se quel “fucking idiots” non mi ha minimamente toccato, tuttavia, posso capire che a tanti altri abbia dato fastidio. Perché la Roma è molto più di una squadra di calcio. A Roma, la Roma ti entra sottopelle fin da piccolo e diventa parte integrante di te. E forse, in fondo, è proprio questa la vera colpa di James Pallotta. Non aver capito Roma, la Roma e chi ha dentro entrambe. Pensare di dirigere un’azienda e non qualcosa che, invece, ha a che fare con la vita stessa dei romanisti.
Gente disposta a ingoiare qualsiasi delusione sportiva, ma non il tradimento dei propri valori.
Qui, più che in tutto il resto, sta il vero fallimento di James Pallotta.