Tra Sunderland e Londra ci sono circa 450 km. Quasi cinque ore di auto, quattro di treno e una scarsa di aereo, ma per volare nella capitale bisogna partire da Newcastle upon Tyne. E solo Dio sa cosa significhi per uno di e del Sunderland, soprattutto negli ultimi anni, mettere piede a Newcastle.
Un’idea ce la dà una tifosa di mezz’età, rigorosamente in tenuta biancorossa, quando risponde alle provocazioni di un gruppetto di tifosi dei Magpies mostrando fiera la sua sciarpa prima di salire su un treno proprio per la capitale, dove il Sunderland ha un appuntamento con il passato e il futuro nello stesso pomeriggio. Questo è “essere Sunderland”: orgoglio, passione, lealtà. Che poi è il titolo della puntata che segna il punto di svolta della stagione della squadra e, di conseguenza, della seconda stagione di Sunderland ‘til I die. La serie nata per documentare un trionfo e che è finita per raccontare una tragedia sportiva. Anzi, due.

Per quanto assurdo possa sembrare, mi tocca dirlo: seguono SPOILER. Avvertiti.

Diciamolo subito: replicare quel piccolo capolavoro della prima stagione era francamente impossibile. Eppure, con questa seconda stagione, i ragazzi di Fulwell 73 ci sono andati davvero vicino. Merito, ovviamente, dell’altissima qualità del loro lavoro, ma anche e soprattutto di un’altra stagione incredibile del Sunderland. Se possibile, ancora più incredibile della prima, che tutto sommato è stata “solo” una lenta discesa all’inferno, dalle speranze di promozione in Premier League all’assurda retrocessione in League One, la terza serie del calcio inglese. Un’enorme palude in cui è fin troppo facile restare impantanati, ma da cui i tifosi, all’inizio di questa stagione, confidano di uscire al più presto, aggrappandosi con tutte le proprie forze al nuovo proprietario, Stewart Donald.

Ed è proprio intorno al vertice del club che ruota maggiormente questa stagione. Al contrario del vecchio proprietario, Ellis Short, figura totalmente assente dalla vita del club, Stewart Donald e il suo socio Charlie Methven vivono pienamente la squadra e la città, e non disdegnano affatto di concedersi alle telecamere per esporre le loro visioni sul Sunderland e sul calcio. Strani personaggi, Donald e Methven. Non hanno per niente l’aria degli uomini d’affari che ci immaginiamo correre ovunque nella City di Londra. Il primo sembra uno che potresti trovarti seduto accanto in un pub qualsiasi, mentre il secondo sembra il classico tipo da “faccio cose, vedo gente”. Insomma, di primo acchitto non gli daresti un centesimo bucato, figurarsi la direzione di un club come il Sunderland. Eppure, Stewart e Charlie, insieme ai loro uomini, sembrano mettercela davvero tutta. Hanno soldi (non tantissimi, a dire la verità) e idee (già di più, per quanto piuttosto discutibili) ma devono fare i conti con una situazione disastrosa a livello finanziario. Anni di malagestione e la doppia retrocessione hanno trasformato i conti del club in buco nero che è il vero protagonista della stagione. Appena subentrati, a Donald e compagnia non resta altro che fare piazza pulita degli sprechi, a cominciare dalla squadra.

Quasi tutti i volti divenuti familiari con la prima stagione non ci sono più. Dei protagonisti della retrocessione in League One sono rimasti in pochi. C’è il veterano Lee Cattermole, che avrà un ruolo cruciale più avanti nella stagione; c’è Aiden McGeady, il calciatore di più alto profilo della squadra, e non a caso l’uomo su cui tutti (compreso il nuovo allenatore Jack Ross) contano nei momenti difficili; c’è George Honeyman, prodotto dell’Academy of Light e nuovo capitano della squadra; e c’è soprattutto Josh Maja, altro prodotto del vivaio già lanciato in prima squadra nel corso della stagione precedente. Un giovane di prospettiva, ma che in League One fa già la differenza: con 15 gol segnati nella prima metà di stagione, è lui a trascinare una squadra comunque al di sopra del livello medio della terza divisione in zona promozione diretta.

Peccato, però, che il suo contratto sia in scadenza e che la società, già costretta a barcamenarsi tra mille difficoltà, debba muoversi in fretta per evitare di perderlo a zero in estate. O, peggio, a gennaio, dal momento che su di lui hanno messo gli occhi diversi club importanti. Ed è proprio sull’affaire-Maja vengono fuori le vere mancanze della nuova proprietà: i soldi scarseggiano, l’esperienza pure, mentre l’agente del giocatore lavora sottotraccia per portarlo via da Sunderland e alla fine ci riesce. A gennaio Maja passa al Bordeaux per una cifra irrisoria rispetto al suo valore, e il Sunderland resta senza il suo bomber. Sul gong del mercato di riparazione, dopo un’incredibile corsa contro il tempo e un esaurimento nervoso, un disperato Stewart Donald abbocca alla trappola del Wigan e sborsa l’assurdità di 3 milioni di sterline per Will Grigg. Una follia che la squadra pagherà a caro prezzo, in tutti i sensi. Siamo alla svolta. L’orgoglio, la passione e la lealtà di cui parla il titolo della puntata sono i valori della gente di Sunderland, non certo di Josh Maja, “uno de passaggio”. Mentre lui sbarca sorridente in Francia, la città e la squadra che l’ha creato restano sole a lottare con i propri demoni.

Grigg è tutt’altro che “on fire”, il Sunderland si ammala di pareggite e perde lentamente contatto con il vertice, galleggiando in zona playoff. Nel momento cruciale della stagione, la situazione comincia a farsi seria. Per fortuna, a dare un po’ di ossigeno agli esasperati tifosi biancorossi arriva la finale di Checkatrade Trophy. L’entusiasmo è alle stelle, l’esodo a Londra, dove si giocherà il match, di massa.
Cose da calcio inglese: in quale altro Paese del mondo uno stadio come Wembley farebbe registrare il tutto esaurito per una partita tra squadre di terza divisione? I tifosi del Sunderland ci sperano, ci credono, non vedono l’ora di festeggiare una vittoria e alzare una coppa. Ma la finale contro il Portsmouth è maledetta e finisce ai rigori. Cattermole sbaglia il suo, il Portsmouth vince e mezza Sunderland torna a casa a mani vuote. Ma non c’è tempo per leccarsi le ferite. In ballo c’è una promozione diretta da riprendere per i capelli. Mancano una manciata di partite da vincere a tutti i costi. Ma la squadra uscita a pezzi da Wembley non ha più forze. Alla fine della stagione regolare, il Sunderland è quinto.

Sotto con i playoff, allora. In semifinale c’è di nuovo il Portsmouth, piegato con un gol in casa e uno 0-0 in trasferta che Donald guarda dal settore ospiti, in mezzo ai tifosi della squadra di cui è proprietario. La Championship è a un passo, ma per conquistarla si deve ripassare da Wembley: altri 450 km, altre cinque ore in auto, quattro in treno, una scarsa in aereo. Stavolta, però, senza l’entusiasmo della prima. Anche perché, in un ricorso storico da brividi, l’avversario è la bestia nera Charlton. Stavolta niente barbe pitturate, niente cori, niente ottimismo. Ci si stringe nelle sciarpe, nelle bandiere e ci si prepara a soffrire. Un autogol ridicolo del Charlton sembra spianare la strada al Sunderland, ma è ancora lunga. E soprattutto quello è il Sunderland. Il Charlton pareggia. I Black Cats se la fanno sotto. Nel Charlton entra pure l’ex Jonny Williams, quello che “era sempre infortunato quando giocava per noi” e adesso ara la fascia sinistra. È la ciliegina sulla beffa. Recupero. Punizione per il Charlton. Cross, mischia, gol, fischio finale. Il Chartlon va in Championship, il Sunderland resta in League One. La gente di Sunderland piange lacrime che sanno tanto di rassegnazione. Mentre quelli del Chartlon festeggiano, una tifosa in biancorosso chiede al marito “perché non tocchi mai a noi”. Domanda retorica. Da qualche altra parte dentro Wembley, Andrew consola il figlio con una frase che condensa vite intere, non solo le ultime due stagioni del Sunderland, ed è un violentissimo pugno allo stomaco: “ci siamo già passati, no?

Sì, ma stavolta fa ancora più male. A un passo dal sogno per ben due volte, e per ben due volte respinti all’ultimo respiro da un destino cinico e baro che sembra voler regalare la sceneggiatura perfetta ai creatori della serie. Non ce ne vogliano i tifosi del Charlton, ma vorremmo che fosse finto. Invece è tutto vero, ed è tutto finito. Lo sa bene anche Stewart Donald, che pochi minuti prima confidava alle telecamere come un’altra stagione in League One sia la mazzata finale sui conti del club, per risanare i quali è da tempo alla ricerca di investitori. Due minuti che mettono a nudo la crudele commistione di soldi e sentimenti che è il calcio. Eppure, alla fine di tutto, nonostante le pressioni della città e della moglie, Donald dice di voler restare alla guida del club. Per riportare il Sunderland dove merita, per restituire dignità a una realtà che si aggrappa al calcio per sfuggire a un presente difficile, ma che proprio per il calcio affronta un futuro più fosco che mai. Un futuro che magari non vivremo così da vicino, tra gli incredibili tifosi biancorossi, o addirittura da dentro, tra il campo d’allenamento e gli uffici del club, ma che non possiamo augurarci migliore di quanto appaia ora. Non fosse altro per una sorta di redenzione dello spettatore. Di chi, cioè, si è nutrito per due stagioni delle speranze deluse e delle immeritate sofferenze (sportive e non) della gente di Sunderland.

Ha’way the lads!






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