Quando è iniziato? E quando finirà?

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Buffo che un paio di verbi, che da soli compongono una frase compiuta, abbiano il potere di ricondurti ad un tempo lontano, pieno di ricordi soprattutto positivi, belli perfino, in alcuni aspetti, anche contraddittori, in quelli ed in altri. Buffo perché quella frase è malevola, crudele, cattiva, perché urlata con derisione, stranamente senza rabbia o motivo, per ferirti ricordandoti che sei fragile, mentre il branco è forte e non muore mai.

Strano veicolo quella frase, ma che è stata pietra di confine tra i miei modi di sentire il calcio nel tempo, quando l’avevo udita scagliata contro un avversario sofferente a terra.

Si avvicinava la fine degli anni settanta. Milano. Anni strani perché collettivi contenitori di tutto: di violenza e speranza, di aperture verso tante strade, verso un futuro migliore, perché non poteva che essere così.

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Erano stati gli anni settanta delle case di ringhiera, della scoperta di Guccini, attraverso un disco prestato da un compagno della serale (Radici), che m’insegnava i primi accordi alla chitarra per una canzone da portare a scuola (Harvest di Neil Young), i vinili di Faber nel negozio di dischi del quartiere (un lusso che allora pesava come un vizio), le bancarelle dei libri usati in ogni piazzetta, dove attingere con parsimonia ma costanza. Gli anni dei numerosi cinema in ogni quartiere.

Gli anni dei movimenti politici di base, studenteschi e operai, focolai e laboratori di sociale, delle prime manifestazioni femministe, di una paga settimanale da apprendista, con cui vivevamo in due, io e mia madre, in quelle case di ringhiera, con un bagno comune nel ballatoio e tanti mobili vecchi e malmessi passati da altri che avevano finalmente acquistato quelli nuovi. Gli anni delle grandi fabbriche dentro la città e di rivendicazioni sindacali e conquiste di diritti importanti.

Gli anni di una politica che sembrava distante e che un po’ intimoriva, elegante e felpata, fatta di persone che sapevano cosa dicevano prima che arrivassero quelli che urlavano le cose ancor prima di quelli della finta porta accanto che fingono di parlare come te ma sanno ancora meno e gestiscono anche la tua vita erodendo le speranze e la fiducia. Gli anni che se trovavano un personaggio pubblico implicato in uno scandalo, e ve n'erano, quello naturalmente si vergognava e non si vantava, quasi con il ghigno dell’intoccabile in faccia, come ora.

GLI ANNI DELLA PRIMA PARTITA A SAN SIRO, nel mitico stadio immaginato quando ero bambino in Sicilia ed ammirato solo da fuori, da quando ero a Milano. Fino a quando, un giorno, il mio datore di lavoro, che conosceva sia la mia passione per l’Inter (anche sua) sia la mia condizione economica, non si presenta con un biglietto, neppure dei popolari ma dei distinti, che costava una buona fetta della mia paga settimanale, e mi dice che lui non può andare ma che il suo amico Fraizzoli gli aveva già dato il biglietto e me lo porge chiedendomi se non avessi voglia di andarci io. Che emozione! Ci misi tante partite a capire che erano scuse diverse per regalarmi i biglietti senza offendermi, accadde quando si lasciò sfuggire che anche lui era stato a San Siro.

Era il tempo che si andava tutti insieme, tifosi di entrambe le squadre, da piazzale Lotto allo Stadio, a piedi, evitando le navette che dall’unica linea metropolitana e dal capolinea della filovia, strapiene, ti portavano un po’ ammaccato allo stadio. Un serpentone che si muoveva con bandiere, cuscini, sciarpe di entrambe le squadre che avrebbero giocato e si parlava con persone che non si conosceva, senza nessuna remora, di calcio, formazioni, giocatori dell’una e dell’altra squadra, senza timore di subire o di causare offesa.

Allo stadio ti sedevi dove trovavi posto, non passandoti neppure per la testa che qualcuno potesse avere propositi violenti, tra quelle persone che dopo avere lavorato, perfino duramente, per tutta la settimana, sgattaiolavano, magari con un panino, per questioni di tempistica, per far parte di quel serpentone, che si infilava allo stadio e diventava popolo unico, officiante un rito collettivo e pagano. All’uscita, il percorso inverso era di fatto un po’ più mogio e un po’ più allegro, a seconda della squadra di appartenenza, ma l’essere parte di un serpentone, appena finito di essere popolo, non cambiava. Senza differenza di età, ci si sentiva tutti importanti, anche io con i miei pochi anni potevo dire la mia al padre di famiglia che mi camminava accanto, magari con moglie al seguito, a commentare un passaggio, un colpo di tacco, il giocatore preferito (Mariolino Corso), cercando consensi non difficili da trovare anche in chi ne apprezzava altri.

I derby, magari in mezzo ai milanisti, o con qualche milanista, sparso in una macchia nerazzurra. E un derby: Mariolino che vede il Milan sbilanciato in avanti e lancia Bonimba, come sempre di precisione, come vuole lui, Cudicini, il ragno nero, avanzato a gridare ai suoi di tornare viene trafitto, ma sarà un pari, non so chi segnò per i rossoneri. Lo ricordo per quel Cudicini che già sapeva e voleva arginare il destino. Poi una settimana al lavoro, a commentare e a sfotterci, e ci era d'aiuto a far scorrere il tempo, anche nell’ora di sosta, di un frugale pranzo in cui doveva scapparci anche la partita a briscola per i più grandi e dei calci alla palla fatta con gli stracci di riserva, che venivano acquistati per pulire le macchine, nel largo marciapiede in via Melchiorre Gioia. Prima ti spicciavi più giocavi e quindi tutto giù di corsa.

Erano gli anni settanta in cui l’arbitro aveva un solo cartellino a disposizione, quello rosso, era sposato immancabilmente con una donna fedifraga, a detta dei molti che cercavano di metterlo sull’avviso, gridando verso di lui in coro, a volte anche arrabbiati, forse perché ne ignorava ostentatamente quella premura. I palloni erano cuciti e pesanti e non si badava troppo al sodo nel giocare e quelli che erano bravi a far girare palla dovevano essere anche bravi ad evitare entrate che oggi ti porterebbero direttamente negli spogliatoi ma che, allora, costituivano quasi un diritto per i difensori, anzi un dovere, se tu li provocavi essendo notoriamente più bravo. Le marcature erano a uomo e probabilmente sono nate delle amicizie mentre si passava del tempo insieme in attesa che la partita si svolgesse anche nella zona occupata.

Un pomeriggio come tanti altri, quando un nostro difensore entrò con eccessiva foga su un avversario, mandandolo dolorante a terra (non ricordo che allora si simulasse. Che strano! Possibile?), visibilmente malmesso, da una parte di pubblico, tutto di tifosi della mia squadra, si alzò quel gridò che segnò un punto di confine fra il prima e il dopo, nella mia vita di tifoso, che oramai aveva i soldi per comprarsi il biglietto, qualche lp e parecchi libri, giovane ma non più adolescente: “DEVI MORIRE… DEVI MORIRE...”

Mi restò impresso proprio perché da allora non mi sembrò più tutto come prima. Non lo era, me ne accorsi come mi accorsi che ingenuamente i miei sensi si erano rifiutati di accettare i cambiamenti, la mutazione di quel popolo che man mano non era più popolo. Lo confesso, non ebbi neppure sufficiente immaginazione per ipotizzare quello che realmente sarebbe accaduto. Guardandomi intorno mi era difficile ritrovarvi quel popolo che andava lì a dimenticare le fatiche, le cambiali, i problemi quotidiani.


C’è un prima e un dopo e a quel prima sono stato trasportato da un episodio accaduto di recente in cui sono state gridate le stesse parole, ma da quel prima, da cui ero uscito, vi era stata una progressione (o meglio regressione?): erano seguiti gli insulti ad un giocatore di colore della mia stessa squadra (Juary), poi qualche rissa, poi qualche coltellata… poi… poi… poi… l’abitudine. Ed ero già nel decennio successivo. Altra cosa. Milano era diventata da bere. Erano gli anni ottanta.

All’estero sono riusciti ad arginare ben altre violenze a cui alcuni sedicenti “ultrà” nostrani stanno cercando di arrivare per pericolosità e inquietudine, perfino sfociando in confini che non c’entrano con il calcio, ma che dal calcio traggono linfa e risorse economiche.

È tempo di spendere un po’ di retorica e banalità: sì, mi piacerebbe che venisse gridato ancora una volta, ma da da quelli che amano ancora questo sport, diventato altro, ma sempre affascinante, quelli che non vanno con le armi allo stadio, ma con le aspettative di una bella partita, magari da ricordare nel tempo: “DEVI MORIRE, CALCIO VIOLENTO”.

Non per tornare indietro, non si può e non sarebbe giusto, non certo per la nostalgia dei pochi e anche perché bisogna pur aprirsi sempre con curiosità al nuovo, ma per liberarci di un peso inutile che ci impedisce di andare avanti spediti verso il meglio.