Lo so, anziché scrivere questa cosa, potrei farne tante altre di cose, purché non mi cimenti nello scrivere. Però, per quanto solidarizzi, anche voi, conoscendo il tipo, non potreste scantonare, soprattutto quando nel titolo è inserito quel D.D.I. che vuol dire "Diario dall'isolamento" che è un lasciapassare quasi su qualsiasi argomento?
Poi, se siete qui a leggere questa premessa è perché quegli incoscienti della redazione vi vogliono male: avrebbero potuto evitarvelo e invece...

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L'ora legale e il cervello illegale...
E' il primo giorno con l'ora legale di quest'anno e la sveglia, per quanto non eccessivamente mattiniera, come quando era alle 5,15, se non mi svegliavo da solo anticipandola e spegnendola per non disturbare la mia compagna di quel tempo, dovrebbe propormi un mondo al momento poco definito, con le ombre che cercano di cazzeggiare ancora un po' tirando tardi il momento di ritirarsi, un po' annoiate, a riposarsi chissà dove. Non è giornata per loro. Da oriente la prima luce che contorna gli edifici dice che non vi è altro spazio per avere parte nella commedia diurna. Sarà per un'altra volta. Magari qualche giorno di pioggia rabbuiato darà loro spazio ulteriore sulla scena del giorno.

In attesa del sole, i cinguettii provenienti dagli alberi del piccolo parco sanno un po' di cazzeggio anch'essi.
E' primavera e, magari, un qualche sport alato che non conosco sta per iniziare diventando stagione di campionato e loro stanno parlando di mercato e squadre, pardon, stormi a rappresentare i campanili vari e, magari, ricordano di quanto fosse più divertente e  genuino il campionato quando loro erano ancora dinosauri non evoluti. O forse parlano del nuovo ristorante, due campi più in là, vicino alla fattoria nella quale tu, umano, puoi mescersi il latte da solo da una macchina dispensatrice, dove hanno appena dissodato un tratto di campo che propone degli anellidi teneri e saporiti. O dell'acqua del ruscello che, da qualche giorno, ricorda quella di quando qua intorno era tutta campagna. Memorabili, a detta dei bisnonni, le annate del '56 e del '57 che avevano un retrogusto davvero insapore. Poi, si sa che questi esperti se la tirano un po'. Qualcuno, magari, giusto perché non sa come attaccare discorso, butta lì un "non ci sono più le mezze stagioni" come un umano qualsiasi che non sa cosa dire... Insomma, ti svegli un'ora prima del solito, c'è ancora un po' di buio e loro sono già lì a cinguettare rompendo un po' le scatole,  piacevolmente però.

Anche tra loro ci dev'essere uno Sgarbi di turno perché continua a ripetere lo stesso verso a voce alta. Probabilmente sarà un "capra, capra, capra, capra..." ripetuto fino a quando l'effetto dell'esaltazione del momento non finisce lasciandolo stordito delle sue stesse minchiate, non ultima quella in cui invitava in pieno allarme coronavirus e zone rosse, ad uscire e andare a Codogno perché questo virus del "buco del... " è solo un pretesto del governo per limitare le libertà individuali. Ed effettivamente, si è visto quanto beneficio hanno portato gli spostamenti indisciplinati dalle zone già infette a quelle ancora non disastrate del Sud. Probabilmente questo uccello sgarbide sta teorizzando quanto bene faccia all'autostima, durante la stagione di caccia, svolazzare tra le rose di pallini per dimostrare quanto si è liberi... Ho sempre pensato che sia stato un limite dannosissimo per me non essere andato a scuola ma, quando sento Sgarbi disquisire su cose che non riguardano l'arte, mi sorge qualche dubbio in proposito. Errato e insano quanto volete ma mi sorge e non riesco a frenarlo.

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I tempi, all'inizio...
Nel 1931 una ragazza che stava lavorando nell'orticello di proprietà del marito ha un lieve malore, ma è dura con se stessa e abituata a fronteggiare il destino da quando era ancora più bambina dei suoi 18 anni, e continua a lavorare imperterrita. Bisogna tagliare le verdure già pronte e fasciarle in mazzetti di dimensioni simili, da vendere ai verdumai che fanno mercato e vogliono ampliare in quantità e qualità la loro offerta. Bisogna far presto e non ci si può distrarre per un dolore qualsiasi. Quella ragazzina è incinta. Ci hanno messo qualche mese in più ma adesso avranno la gioia di avere il primo bambino.

Quando il marito tornerà a casa scoprirà che quel malore era dovuto ad un aborto spontaneo e che hanno perso quell'essere tanto desiderato. Da vari esami dopo, che sottraggono risorse al poco fruttare delle loro fatiche, si affermerà e poi si confermerà che quella ragazzina non potrà più avere figli. Un colpo per quella famiglia nata da poco. Per quel padre già vecchio a 24 anni che non so come prese la cosa, se semplicemente con la tristezza della vittima del fato o con la rabbia da sfogare verso il mondo e verso quella moglie così vicina e facile da ferire, spero di no, ma succede da sempre. Nessuno me l'ha rivelato. Però, quella ragazzina era mia madre.

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I luoghi...
Gli orti, a Caltagirone, erano in una valle posta a ovest del centro storico. Un quartiere non proprio, economicamente, esuberante di salute. Vi sono ancora adesso rimasugli di quell'attività. Il centro storico, che allora era tutta la città vecchia, casa su casa, tutto ad appoggiarsi all'esistente, nelle zone meno abbienti, è posto su tre colline, di conseguenza è tutto un saliscendi di scalinate e strade non larghissime. I carruggi serpeggiano ovunque, stretti e ombrosi anche in estate, qualcuno ancora con i muri di pietre e sabbia della mia infanzia, scavati dal tempo. Anche se, oramai, ne incontri sempre più raramente. Lì nidificavano i ragni e ci sbarazzavano naturalmente delle fastidiose mosche. Lì nidificavano i ragni che dovevano sopravvivere ai giochi crudeli dei bambini a cui facevano paura ma non abbastanza da tenerli lontani con i loro rametti assassini.

Di sabato, via Canaletto, quella che sbucava sugli orti, era adibita a mercato, così come la più larga via Iudica, su cui proseguiva e che finiva a due passi dal Palazzo delle Aquile, il municipio, nel centro città. Del mercato ricordo gli indumenti usati che provenivano dall'America (vale a dire gli Stati Uniti, perché Argentina e Venezuela, dove molti erano emigrati, non sembravano essere considerate "America"). Uno zio che aveva una bancarella, di quelle meglio messe, andava a rifornirsi a Napoli, dove approdavano le navi che trasportavano quella mercanzia. Ricordo, in modo specifico, quelle giacchette di lana, colorate, in vendita a poche lire (sempre tante, per chi si arrabbattava a sopravvivere). Ne possedevo almeno tre e mi piaceva indossarle. Così come i jeans italiani, che però erano nuovi e a buon mercato, e le scarpe da tennis. Insomma, tutto quello che ho indossato normalmente per una vita intera.

Ricordo un mio compagno di classe, figlio del proprietario della farmacia in centro, che facendo un tratto di strada insieme a me, tagliando per l'immenso parco cittadino, di una bellezza sfolgorante allora, mi chiese perché mi vestissi sempre con jeans e magliette (d'inverno sfoggiavo le bellissime giacchette usate). Allora, per poter studiare inglese, invece che il diffusissimo francese, ero stato iscritto, con non poche difficoltà e per l'intercedere di una zia che vi faceva la bidella, ad una scuola distante parecchio da casa, vicino alla nuova ed esclusiva zona, sempre per quel tempo, intorno al viale Mario Milazzo. Dietro, meno visibili, le case popolari relegate nella nuova periferia. Quella scuola era un misto di figli di persone benestanti e di figli del popolo disagiato, come me. Per cui, il figlio del farmacista, che indossava giacca e cravatta, cosa che a me sembrava un po' ridicola per la nostra età, trovava ridicolo, invece, che io frequentassi con quella divisa povera (jeans, t-shirt e scarpe da tennis sarebbero diventate "moda" molto più in là nel tempo) la nostra scuola. Buffo che un mio collega, molti anni dopo, mi dicesse le stesse cose. Il suo "sei sempre lo stesso: jeans e scarpe da tennis!", visto le geremiadi che ero costretto a sentire sul suo nuovo impegno totalizzante, che gli rubava tutto, ma non il portafoglio, mi era di conforto.

Quartieri e strade a ridosso degli orti, quando vi era qualche temporale insistente, ricevevano tutta l'acqua proveniente dai quartieri più in alto e, gli stretti carruggi, ma anche lo stradone, si trasformavano immediatamente in torrenti in piena da cui stare in salvo e da osservare da dietro i vetri. Mi affascinava il salto dell'acqua sui gradini più alti delle scalinate, ma ne ero pure intimorito. Spesso, a farsi perdonare di quelle intemperanze climatiche, il cielo creava un arco colorato bellissimo. L'arcobaleno era un risarcimento equo per noi bambini, che uscivamo di corsa a guardarlo prima che svanisse magicamente com'era venuto, un po' meno per gli adulti.

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La vita per caso...
Di quegli anni, tra il '31 e quando nacqui io, so poco. Quella coppia di prima, che aveva visto l'orrore della Grande Guerra con gli occhi bambini, dovrà attraversare anche il funesto ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. So che mia madre sopravviveva come poteva, vicino alla sua numerosa famiglia di provenienza, mentre mio padre era militare in un presidio in Sardegna, cosa che lo tenne lontano dall'affrontare la disfatta in terra sovietica che, invece, non fu risparmiata a suo fratello disperso in Russia. Di quel periodo, e di loro, conservo una coperta che lui si portò a casa e che, ancora adesso, d'inverno, aggiungo allo strato che copre il mio giaciglio. Sopra un piumino, moderno e efficacissimo, quella vecchia coperta militare mi scalda un po' l'anima, come altro non può fare.

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La guerra appena alle spalle, la fatica di tirare avanti e riprendere le abitudini e i contatti lavorativi. Mio padre, bracciante agricolo, con un'inaspettata cassa di preziosissimi libri classici, con le illustrazioni dell'epoca, che erano la sua biblioteca e con i suoi quaderni dove raccoglieva poesie, con la sua accuratissima grafia, custoditi come quel tesoro che effettivamente per lui rappresentavano, era un lavoratore conteso dai vari proprietari terrieri, nonostante, in quella terra di cattolici democristiani, che diede i natali a don Luigi Sturzo e a Mario Scelba, avesse una tessera del Partito Comunista Italiano, di cui era segretario cittadino il mitico "medico dei poveri", di famiglia nobile e cugino di Luigi Sturzo, Giambattista Fanales, che scontò 6 anni di carcere a Roma per le sue idee antifasciste e, nonostante amici e famiglia avessero ottenuto la grazia, preferì rimanere in carcere piuttosto che sconfessare le sue idee. Lì, continuò a professare quella che riteneva la sua missione, curando i famigliari dei suoi carcerieri, povera gente, guadagnandone il rispetto e la devozione.
In quegli anni, riallacciata la vita a quella interrotta prima della guerra, decisero di adottare una bella bambina, per ovviare all'impossibilità di avere figli loro. Erano anni duri, ma anche anni pieni di sentimento e amore per quella figlia che cresceva attaccatissima a loro, a cui preparare la strada verso il futuro.
Inaspettatamente, dopo pochi anni, ormai il 1948, ben diciassette anni dopo quel tragico momento che aveva sancito che non avrebbe più potuto avere bambini, mia madre si scoprì incinta e i medici poterono solo constatare che il loro perentorio giudizio era stato messo in discussione dalla natura. Nel 1949 nacque mia sorella, la minore delle due femmine. La felicità era immensa. Il desiderio di avere anche un figlio maschio, per la gioia di mio padre, chissà per quale motivo, si concretizzò in un mattino di luglio di quattro anni dopo. Arrivai, in modo un po' inopportuno, intorno alle 5,30 di mattina.

Non fu un grande acquisto da parte della famiglia, diciamolo pure. Di lì a pochi giorni iniziarono i problemi. I miei erano cattolici e, ovviamente, dal loro punto di vista, volevano battezzarmi ma, nel frattempo, nel 1949, era intervenuta la scomunica, tramite il decreto della Congregazione del Sant'Uffizio, per chi era iscritto al P.C.I., lo votava o anche semplicemente ne leggeva la stampa e il prete si oppose fermamente a che quel piccolo diavolo rosso potesse scampare alle fiamme dell'inferno, che meritava tutto intero. Solo l'intervento di uno zio, che era molto attivo nell'organizzazione delle feste parrocchiali cittadine, e ben lontano dalle idee politiche dei miei genitori, come, tra l'altro, quasi tutti gli altri parenti da parte di mamma, lo stesso che aveva il banchetto al mercato della "roba americana", convinse il prete che meritassi di essere tratto in salvo, prima di finire completamente abbrustolito con largo anticipo sui tempi, forse con qualche cospicuo obolo o, come mi piace pensare, anche se poco realistico, presentandosi con il suo fucile da caccia e la sua fama di tiratore quasi infallibile e con un'offerta che non si poteva rifiutare, come nel Padrino di Coppola, magari perfino con il suono di uno scacciapensieri a sottolineare la richiesta e la gravità del momento.

Inconsapevole di avere scatenato tutto quel putiferio, io me ne stavo beato a esplicare la mia attività di poppante che, per l'abbondanza di latte di mia madre, sarebbe durata ben oltre il dovuto e mi avrebbe portato a diventare fratello di latte di Finu, un cucciolo di cane trovato, o abbandonato, tra le macerie di guerra di una casa diroccata, in prossimità degli orti. Può sembrare una storia strana o da romanzo di London ma, invece, tra la povera gente del dopoguerra la bontà non era un optional ma dotazione di serie. Trovato questo cucciolo, e avendo abbastanza latte anche per lui, la sua ciotola veniva fornita di latte umano. D'altro canto, sia guardando la foto dell'epoca, sia dai racconti della mia sorella maggiore, che mi accudiva come una seconda giovanissima madre e che mi doveva portare in braccio, dividerci il latte non mi penalizzava affatto, visto che a tre mesi pesavo ben 8 chili.

Ho scoperto, un paio di anni fa, proprio narrando questa vicenda, non so per quale motivo, che, quando nacque mia sorella, anche il figlio di un nipote di mia madre (allora le famiglie numerose creavano bozzarri rapporti di parentela, a guardare l'età, per cui quel nipote di mia madre, che io chiamavo zio, aveva la sua età), la cui moglie non aveva latte a sufficienza, ebbe mia madre come nutrice. Questo, a conferma dell'assoluta disponibilità ad aiutarsi in ogni modo. Certo, scambiarci queste storie con il diretto interessato, nella sua bellissima casa di campagna, con sopra il tavolo all'aperto un vassoio di cannoli rigorosamente alla ricotta, portati da noi in visita, e del caffè appena fatto, a ben oltre mezzo secolo di distanza da quegli avvenimenti, sembrava un po' surreale.

Finu fu ucciso, quando aveva circa sette anni, per difendere, da dei poveri ladri di disperazione altrui, una zappa, un paio di scarpe e gli indumenti da lavoro che un mio zio, a cui Finu era stato regalato quando era ancora piccolo, teneva in campagna. Tutte le volte che mio zio lo portava in città, Finu correva a trovare mia madre, fiondandosi in casa o grattando la porta per farsi aprire. Lei ne pianse la morte con inconsueta, ma compostissima, disperazione, anche se proferiva frasi piene di stoicismo e fatalità, che non capivo appieno, per consolarmi.

Nel frattempo, avevo dato un colpo di grazia alle scarse entrate famigliari, ammalandomi di difterite, guarendo per il rotto della cuffia, ma costringendo mio padre a vendere l'orto per pagare le cure. Lui se andò quando avevo quattro anni. Ricordo poco e me ne duole immensamente. Solo uno è indelebile: lui che mi fa bere da una fonte, che sbucava da un buco in una roccia, utilizzando una foglia per convogliare il getto dell'acqua. Orgoglioso, mi aveva portato con sé, per un breve lavoro, forse solo un controllo, in una campagna che accudiva. Qualche volta mi sono domandato se sarebbe stato orgoglioso, se fosse vissuto, anche del mio crescere, ma, probabilmente, la mia vita avrebbe percorso altri sentieri, seguito altre ambizioni, raggiunto qualche soddisfazione e disperso potenzialità e occasioni per inadeguatezza o troppo orgoglio.

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Adesso, mentre me ne sto chiuso in casa a leggere e riflettere, tenendoci per mano con l'impotenza per non saper che fare per dare una mano, oltre che non essere d'intralcio a chi si sta battendo anche per me, senza mestizia eccessiva o il peso dei rimpianti, costretto a fronteggiare due avversari, uno personale e l'altro comune, non in un campetto di calcio, divertendomi, ma nei giorni della mia vita, e mentre mi raggiungono notizie di ex colleghi morti a causa di questo insidioso e subdolo avversario che si è insinuato nelle nostre vite, sconvolgendole, pensando che la mia vita è dovuta al gesto casuale del destino, che nel 1931 ne sacrificò un'altra, mi domando se di questo regalo ne ho saputo davvero fare buon uso.





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