• Dall'isolamento attuale...

Beh, certo, anche il tempo, in senso atmosferico, influisce e oggi, dalla finestra, vedo l'asfalto bagnato e i sentieri del piccolo parco con l'erba, ai lati, che ha un che di sano, di rinascita quasi. Il sole sarà anch'esso a casa, per motivi precauzionali o, forse, in vacanza. Comunque non qui. Ci conosciamo da quando sono nato, con il Sole, caldo e mediterraneo, accogliente e fastidioso. Insomma, un vecchio amico a cui, spesso, bisogna perdonare l'esagerazione che a noi dà un po' fastidio ma che ci mancherebbe - e ci manca, sì! - non appena si assenta. Eppure, la pioggerellina che scende non sembra fastidiosa da tenerci a casa con giustificazione assoluta, per assentarci un poco dal civile formicolare delle città. C'è altro a tenerci a casa, stretti a noi stessi, nell'assolutezza di un bisogno di sicurezza che ci ha ricacciato indietro quel po' di arroganza di senso immortalità, rimasuglio di età giovanile o di senile debolezza nell'affrontare il declino di faccia, e non di sbieco, lasciandoci sempre una via di fuga su cui magari inciampare, cadendo fragorosamente, oppure svicolando nel fraterno e protettivo angolo che ci fa sparire alla vista degli altri.

Allora perché non tentare una fuga a ritroso? Rifare sentieri percorsi sollecitando la memoria ficcandola in terra fertile, come il passato, in terra amica, come la giovinezza, e vedendola crescere miracolosamente ed istantanea. Meglio sarebbe lavorare in compagnia, dove ognuno aggiunge un pezzetto di fatica a curare un fragile germoglio e difenderlo e vederlo presto ramificare adulto e proteso verso di noi con frutti miracolosamente saporiti o velenosamente amari, a non saper scegliere, perché ammantati di uguale fascino e bellezza. Ma anche la bellezza può essere effimera e traditrice, quando coltivi ricordi. Basta un nulla e ne smarrisci il senso e il valore, per un gusto sbagliato che ti allontana.

***

  • ... al dolce esilio di allora

Metà anni settanta e il sole immancabile in quelle estive vacanze dal lavoro, assolutamente, anche loro, solo ad agosto, e faticosissime agli estremi. Partenze scomode, quasi notturne, se in macchina, con la mia 500L, per 1600 chilometri circa, o all'assalto di treni con posti non più prenotabili, come tribù indiane nei film western degli anni '60, e chiacchierate infinite nei corridoi affollati, a volte stando in piedi e, col buio, seduti per terra o sulla valigia che non aveva trovato posto in uno dei due bagni sacrificato al bisogno di spazio per i bagagli. Incredibile a pensarci ora, ma così era! Un po' di sonnecchiare concesso alla stanchezza e poi di nuovo in mezzo a quel sociale schiacciato tra sudore e parole. Ritorni sentimentalmente faticosi, come strapparsi di dosso radici giovani riformatisi sul corpo, trafelati, con i saluti frettolosi, con le macchine che non concedevano posto, se non a fatica, alle minutaglie di ritorno. Come le cibarie da immolare ad un  tavolo fatto altare per propiziarsi gli dei della memoria, passando per le papille gustative nostre e degli amici che non le conoscevano. Povere cose ricche di senso e inconsapevoli del loro valore effettivo, affettivo e assoluto.

Ma, in mezzo, in quei giorni di agosto, c'era il piacere irresistibile di  calcare con gli stessi piedi, magari adulti, i passi del tempo alle spalle: lì c'eri stato, perfino bambino, e lì c'eri ancora e tutto era mutato e immutato, come tu stesso eri. Eppure, dopo un primo vagabondare solitario e stupito, dal tutto e dal niente, i veloci saluti, tutti in un giorno dedicato ai parenti, e io e mia madre scappavamo in campagna, dove due piccole stanze, senza acqua corrente né luce, ricavate da una stalla, poco distante dalla vecchia casa padronale, non immensa neppure essa, ci accoglievano felici. Disfatti i bagagli, lasciati liberi di vagare i due amici a quattro zampe, tutti usciti miracolosamente dalla piccolissima 500L, o tirati giù da un portabagagli minuto e adatto al tettuccio della macchina, versatile come il marsupio di Eta Beta, era tutto un ammirare le colline distanti, con i casolari rari e operosi, in lontananza, e le distese di viti, di ulivi e anche con alcuni alberi di fico, furbescamente cresciuti alla mezz'ombra di un muro o di altri alberi, e di orti personali: insomma, pronti per un felice esilio!

Esilio interrotto di mattina, prestissimo. Sveglia data non con un caffè ma con l'acqua gelata, scioccante ed efficacissima alla bisogna, del pozzo posto quasi in una stanza naturale, con quattro pareti di fichi d'india dalla base ormai legnosa, come d'albero, con cui ci si lavava, riparati alla vista di altri ma non dei cani che mi seguivano ovunque, immaginando, con la fiducia incondizionata che è loro propria, di divenire protagonisti di incredibili avventure in cui mi sarei cacciato, insieme a loro. Fiducia, ovviamente, mal riposta e sempre disattesa ma mai sconfitta e, comunque, contenti di ogni novità, rispetto alla vita in città, instancabili nel separare odori e ammirare cose nuove e inimmaginabili, prima.

Colazione davanti casa, su un tavolaccio che permetteva di improvvisare, mentre il sole era a picco, protetti dall'ombra da una tettoia in cemento e canne, una sala da pranzo all'aperto sul mondo campagnolo circostante e che ci faceva diventare parte del paesaggio ma che, di mattina, sorreggeva una tazzona di latte appena munto e ancora tiepido, frutto di una trattativa di mia madre con la vicina fattoria, che, ogni mattina, ci avrebbe fornito anche le uova fresche delle loro galline. In quel latte, che non scaldavo neppure, immergevo tagliuzzato in piccoli pezzi il pane che cominciava a diventare meno morbido, dopo giorni dall'essere stato prodotto.

La luce sul mondo, per noi un po' più in basso rispetto allo stradone, a oriente, cominciava a dipingerci il mondo intorno giusto a quell'ora, non disturbando più di tanto il residuo fresco mattutino. Si partiva, appena pronti, e si raggiungeva la città, a qualche decina di minuti, e il mercato dei verdumai, dove ci approvvigionavamo, come presso le piccole botteghe intorno, o in chioschi sullo slargo delle scalinate lì intorno, che conducevano al centro della città. Una scappata a vedere se erano arrivati i giornali, nella fornitissima edicola del centro, gestita da un signore disponibile alle novità, come le pubblicazioni che gli chiedevo di procurarmi, e con uno scomparto di libri economici ben fornito. Se c'erano già, acquistavo frettolosamente Paese Sera o L'ora di Palermo e il Corriere dello Sport, scelto perché allora parlava diffusamente anche del calcio minore meridionale, a cui apparteneva l'A.S. Caltagirone, che allora esisteva ancora, prima della sparizione nei primi anni di questo secolo.

Appena finito, quando ancora la città sonnecchiava chiedendosi se valesse la pena di aprirsi al mondo o di allungare un po' il riposo, sfruttando la frescura che sarebbe scomparsa all'improvviso, al primo accorciarsi delle ombre proiettate sulla piazza, noi eravamo già diretti alla campagna, con il nostro bottino. Mentre mia madre sistemava, in modo magicamente razionale, le cose, proteggendole in qualche modo dal caldo, io mi dirigevo verso il pozzo e, prima di giungervi, attraverso un sentiero laterale, a ridosso dei fichi d'india, mi approcciavo ad un generosissimo albero di fichi che ci regalava ogni giorno metà paniere di sue prelibatezze, scelte tra quelle mature al punto giusto e che, altrimenti, sarebbero andate perdute e che, a metà tra frutto e dolce, avrebbero chiuso il nostro pranzo.

Pranzo a cui partecipava l'intera piccola famiglia, che scendeva dalla città, dove più comodamente preferiva alloggiare, nonostante il caldo, considerando scomodità alcune delle cose che, in quel periodo, davano la sensazione, a me e a mia madre, di rimanere vicini alla natura. I cani, avuto il loro, e dopo averlo divorato in fretta, si dividevano nella scelta delle persone a cui stare vicini per trarre un qualche vantaggio. Non a me che, impegnato a masticare qualcosa, non lasciavo intendere nulla che desse adito ad una qualche possibilità che potessi lanciarmi all'improvviso in quella agognata avventura che ci avrebbe visti protagonisti, né agli altri commensali, anche loro distratti dal cibo irraggiungibile posto sulla tavola. Allora, i due bambini, miei nipoti, diventavano oggetto delle loro attenzioni. Uno perché li amava, ricambiato, in modo incondizionato e l'altro perché stava sempre masticando qualcosa di commestibile e le cui mani affascinavano per il loro contenuto che avrebbe potuto cadere o essere espropriato con un pronto e veloce approfittare della minima distrazione.

Il pomeriggio, dopo il caffè, le chiacchiere, l'ozio o la pennichella per sottrarsi al sole e rigenerarsi dal quel senso di mollezza postprandiale, da cui madre e sorelle sembravano immuni, la squadra si riduceva all'osso prima che le ombre della sera, che lì calava in fretta, invadessero la campagna, addolcendo colori e contorni, prima di appropriarsene definitivamente. Il nostro isolamento era varcato solo da una radiolina a transistor che ci portava qualche notizia regionale, col suo gazzettino, e nazionale, con il giornale radio. Calate le ombre prendevano vita due lumi a petrolio, con la loro luce ondeggiante ad ogni alito. Uno sul tavolo davanti casa, quando un'insalata di pomodori, cipolle, origano e olive verdi schiacciate accompagnava il pane, magari con un po' di pecorino pepato, al primo sale, e un po' di frutta, trovando, mentre un sole sonnacchioso stava quasi per salutare, tra i filari qualche grappolo maturato in anticipo, ciò che era rimasto dei fichi e qualche fico d'india o qualche pesca, raccolti anch'essi alla bisogna, non prima. L'altro in casa, mentre mamma sistemava qualcosa per il giorno dopo, fidandosi a lasciare al sottoscritto la preparazione dell'insalata, con i cani che capita l'antifona, percependo che da lì, tra pomodori e cipolle novelle, non sarebbe scaturito nulla di avventuroso, andavano a cercare altrove qualche svago, ricomparendo magicamente quando le loro ciotole venivano poste davanti casa.

Mentre il muro d'ombra creatosi sulle colline veniva interrotto solo dallo sbucare di qualche fiammella minuscola di lume, da qualche fuocherello o dai fari delle macchine che scendevano dai sentieri delle colline, andavo a prendere una pila elettrica e, dietro la sua luce che affettava l'ombra, raggiungevamo lo stradone, illuminato solo dalla luce della luna, che disperdeva nel nulla quella della pila elettrica con il suo chiarore, e bastevole alla bisogna, perché lì sembrava quasi abbassarsi verso di noi, tanto da sembrare raggiungibile alla fine della strada. La felicità dei cani, a quella passeggiata serale, perché non era così tardi a detta dell'orologio meccanico, sebbene quello naturale dicesse ch'era notte, era palpabile: ogni ombra era un pericolo da allontanare abbaiando o scartando velocemente di lato a proteggerci, come quelle dei fichi d'india che potevano essere minacciose o cordiali, a secondo di come voleva il tuo stato d'animo, mentre i rovi porgevano le loro more mature alla tua mano distratta e, nella stessa distrazione, finivano a mischiarsi con le parole che ci scambiavamo, sui ricordi di mamma, sui parenti, sulle notizie che i verdumai, conoscenti comuni, avevano rivelato, colmando parte del periodo della nostra assenza annuale.

Dopo la passeggiata, ancora un po' di lettura, giusto per prendere sonno.

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  • Lo straniero... 

Ovvio che questo era valido solo per i primi giorni e il primo negarsi al "rivederci a presto" a cui ci si arrendeva, anche con un certo piacere. Ritrovare amici, che si erano passati parola nell'averti intravvisto in città al mattino e organizzare appuntamenti fatti di pizza e magari, qualche partitella, o anche solo qualche calcio al pallone, frantumava l'isolamento in qualche sua parte, ma, alla fine, anch'esso piacevolmente. Da lì, alla fine delle vacanze sarebbe stato un misto di isolamento e socialità.

Un mattino, entrato in un negozio che vendeva anche materiale fotografico, oltre ai più diffusi prodotti della comune tabaccheria, per acquistare qualche rullino per la mia Praktica MTL3, mi resi conto di conoscere chi stava al di là del banco e, dopo aver chiesto e pagato ciò che mi occorreva, giusto perché ciò che stavo per fare non sembrasse voluto per cercare favoritismi nell'operazione, chiesi a bruciapelo se avesse ancora la maglia dell'Inter a strisce diagonali. La maglia che l'Inter utilizzava per le partite internazionali. Lui ne possedeva una che gli invidiavo, quando, da ragazzini, ci affrontavamo in partitelle improvvisate nell'oratorio vicino casa mia. Mi guardò stranito e, credo, un po' sospettoso, rispondendo con un "ci, conosciamo?" un po' scettico.

Gli dissi che avevamo giocato insieme parecchi anni prima, oggi, alla mia età, direi "pochi anni prima" ma allora erano una parte corposa della nostra età, gli dissi anche dove e con chi, ricordando persone che non vedevo più da allora. Gli ricordai che aveva l'abitudine, in prossimità della chiusura della scuola, di collezionare fumetti, che non leggeva subito per poterlo poi fare durante le vacanze estive che avrebbe trascorso nella loro casa di campagna. Beh, sì, venivamo da situazioni famigliari ed economiche differenti e il nostro chiacchierare si svolgeva in italiano, anziché nel più diffuso dialetto. Gli dissi che varie volte ero andato a trovarlo, in quei periodi, con i miei fumetti, quelli in miglior stato, per scambiarceli sui gradini di casa sua, in via Roma, di fronte all'entrata laterale del grande Giardino Pubblico. Poi, mi resi conto che il ragazzino che aveva conosciuto lui aveva un folta e lunga capigliatura un po' ondulata e che era magrissimo, adesso io ero lì con gli occhiali, qualche chilo in più, anche di muscoli, e completamente pelato, o quasi. Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, questa volta da parte mia, mentre lui rimescolava i ricordi nella sua memoria cercando di afferrare qualcosa che riportasse a galla il nome e quei tempi, convinto dalla precisione dei miei ricordi, farfugliai di impegni e di macchine parcheggiate inadeguatamente, gli porsi la mano che a quel punto voleva trattenere e, dribblando la paura della mia assenza, che mi aveva preso, raggiunsi la macchina e tornai nel mio rifugio sicuro, dove esistere non dipendeva dalla memoria degli altri.



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