Senza neanche accorgersene, di colpo, l’Erasmus era finito. Nonostante nell’aria ci fosse quel sapore d’addio noi faticavamo ad accettare quel che stava succedendo.

Questa negazione di una realtà che in quel momento faceva troppo male ci guidò verso una decisione inevitabile: un viaggio d’addio. Un viaggio era il miglior farmaco che potessimo assumere per cercare di alleviare i sintomi causati dal trauma di fine Erasmus. Un palliativo in grado, quantomeno, di posticipare il temuto rientro in Italia.

La sera prima di partire fu struggente.

Ci riunimmo nella nostra nella nostra amata Plaza Mayor, (la piazza principale della città), il nostro luogo sicuro; il posto che per 6 mesi ha accolto migliaia di risate e sorrisi e ora si stava colmando di lacrime. Lacrime amare, consapevoli della fine di una splendida avventura.

La piazza era bellissima. Come sempre. Le meravigliose luci di quel luogo così magico ci illuminavano i volti stravolti, indugiando e accentuando lo stato d’animo di ognuno di noi. I fasci di luce sembravano fatti apposta per risaltare la lucidità degli occhi, anche i più rigidi e i più composti si sciolsero davanti ad una scena così triste e furono costretti a lasciarsi andare, il tutto proprio sotto le luci di una piazza che non sembrava scendere a compromessi con le emozioni.

Dopo qualche ora, Salamanca decise che poteva bastare. Era ora di dirsi addio.

Le luci si spensero e dopo un lunghissimo e dolorosissimo abbraccio decidemmo di tornare a casa. Bisognava riposare, il mattino seguente si partiva per Madrid.

Quella notte, ovviamente, non riuscii a dormire, anche se avrei dovuto.

Ero triste ma con il cuore leggero. La sensazione provocata da quella tristezza era paradossalmente quasi piacevole. Nella mia testa affioravano i ricordi dei 6 mesi più belli della mia vita. Questa sequenza d’immagini creata dal mio cervello creava un sadico film che non faceva altro che accrescere la tristezza ma contemporaneamente alleggerire il cuore con la consapevolezza di non avere alcun rimpianto.

Come una mosca che affoga nel miele il mio cuore affogava in una nostalgia resa dolce dalla gratitudine per tutto quel che fosse successo.

Salamanca mi aveva fornito le risposte di domande che non mi ero neanche posto. Quella città mi aveva fatto capire chi fossi, mi ha insegnato ad accettare chi ero e soprattutto a perseguire i miei sogni per poter diventare la persona che voglio essere.

Mi era rimasto un unico grande dubbio: L’Italia.

Mi chiedevo se fossi pronto per il rientro, sarei stato in grado di gestire le mie emozioni dopo aver lasciato tanta felicità. Incertezze legittime che sistematicamente diventavano più opprimenti, più si avvicinava la data di ritorno e più questi pensieri ronzavano per la mia testa.

A chiarire le mie perplessità, come sempre, ci ha pensato l’amore della mia vita: il Calcio.

Sembrava quasi che l’Italia non riuscisse a mettersi in contatto con me fino a che non ha trovato il linguaggio a me più caro: quello del pallone.

La Nazionale aveva superato il girone agevolmente, aveva vinto la dura battaglia con l’Austria e aveva dominato il Belgio rendendolo impotente.

Ora era arrivato il momento di affrontare il destino: La spagna.

Una beffarda coincidenza del destino avevo deciso che era arrivato il momento di affrontare e superare quella nazione che tanto mi aveva dato ma che era ora di lasciarsi alle spalle.

Siamo arrivati a Madrid da un giorno e stasera c’è la partita. Siamo un gruppo composto da 4 ragazze e due ragazzi. Alle ragazze non importa granché, io e il mio amico la sentiamo eccome. Si muove e parla con la rilassatezza di chi, non solo è sicuro di vincere, ma ha anche la presunzione di voler festeggiare.

Io la vivo in maniera diametralmente opposta. La mia paura più grande paura è legata a un’eventuale inutile rissa. In caso di vittoria dell’Italia ho paura che il nostro accento italiano non sarebbe graditissimo. Il “nemico” che festeggia in casa propria non piace a nessuno.

Questa tensione influenza anche i miei pronostici. Temo il tiki-taka e la tecnica degli spagnoli. Devo ammettere che mi facevano paura.

Dopo aver visitato la splendida capitale spagnola decidiamo di metterci alla ricerca di un pub dove poter guardare la partita. Dopo ore di estenuante ricerca a piedi quasi per caso troviamo un Irish-pub che ci colpisce sin da subito. Si tratta di un locale enorme in una zona centralissima di Madrid a due passi da Puerta del Sol, è decorato con uno stile retrò che si abbina perfettamente con la definizione di pub. Tavoli in legno, foto in bianco e nero, lampadari enormi in cristallo che emanano quella luce fioca che conferisce all’atmosfera quell’intimità e quella rilassatezza che si cerca in un locale del genere. Consapevoli del posto e della centralità della zona dove è situato, entriamo nel pub con la cautela e la timidezza di chi sa che si sta cacciando nella tana del lupo. Sappiamo che ad ogni passo potrebbe esserci un pericolo in agguato, ma sappiamo anche che se “portiamo a casa la pelle” potremmo vantarci di un’esperienza unica.

Ci sediamo con quasi un’ora e mezzo di anticipo, la serata è da sold-out e noi vogliamo essere sicuri di avere un posto. Ordiniamo una birra per stemperare la tensione, mentre sorseggiamo il locale inizia a riempirsi; prima lentamente, poi in modo sempre più frenetico e convulso fino a trasformarsi ad un via vai di persone senza controllo. Usciamo a prendere una boccata d’aria e con stupore vediamo che si è formata una fila lunga decine di metri.

Rientrando noto con stupore parecchie maglie azzurre che mi rincuorano, passando tra i tavoli scorgo diversi accenti italiani. In parte mi tranquillizzo ma sono pur sempre consapevole che siamo in minoranza.

Arriva il momento degli inni, cacciamo in bagno l’amica che arrivava sempre in ritardo e di conseguenza non ne aveva sentito neanche uno. La scaramanzia in questi casi è sacra.

Siamo pronti a cantare con orgoglio, ma a bassa voce. Non vogliamo dare troppo l’occhio.

Partono loro, la Marcha Real è priva di parole e non mi faccio troppe domande quando mi rendo conto che non viene neanche canticchiata da nessuno.

Finalmente tocca a noi.

Nel momento in cui partono le note di Mameli non posso credere ai miei occhi: Tutto il locale si unisce nel più patriottico degli abbracci. Perplessi ma confortati finalmente ci lasciamo andare. Cantiamo a squarciagola facendo il carico di una scarica di adrenalina che ci carica come non mai.

Incuriositi da una maggioranza così schiacciante chiediamo spiegazione a dei ragazzi di fronte a noi che con un marcato accento napoletano ci spiegano che si sono messi tutti d’accordo su Facebook in un gruppo che si chiama “Italiani a Madrid”.

Credo che il Dio del calcio abbia voluto darmi una risposta chiara e definitiva ad ogni mio dubbio con questa coincidenza.

La partita è tesa, loro girano bene il pallone e la tecnica individuale è notevole. Noi siamo ordinati, rischiamo poco ma non creiamo nulla. Ho paura del calo fisico, stiamo correndo troppo e a vuoto.

Si sa noi Italiani troviamo le risposte quando siamo sottopressione, così nel secondo tempo quando loro cominciano ad alzare l’asticella decidiamo di avviare un contropiede perfetto, oserei dire “all’italiana” che si conclude con la perla di Chiesa. Il pub esplode letteralmente di gioia. Urla, cori e adrenalina però durano solo 20 minuti.

Il goal di Morata gela il pub. La tensione e il nervosismo sono palpabili. Il silenzio è il padrone assoluto della scena, a interromperlo solo qualche commento carico di frustrazione e l’esaltata voce del telecronista spagnolo che in quel momento è una terribile tortura dalla quale non possiamo esimerci.

I supplementari sono infiniti. Riusciamo a sconfiggere l’insopportabile ansia e ad arrivare ai rigori solo grazie all’aiuto di qualche boccale di birra.

Le facce di tutti sono stravolte dalla tensione. Anche chi non si è mai interessato il calcio percepisce la criticità del momento e soffre con noi. Decidiamo di abbracciarci. Abbiamo bisogna di darci forza l’uno con l’altro. Proprio come è accaduto durante l’inno.

Iniziamo noi.

Partiamo male.

L’errore di Locatelli riporta dentro la mia testa tutta quella negatività e quel pessimismo che ero riuscito ad abbandonare, ma pochi secondi dopo Morata e Olmo riaccendono la speranza.

Siamo al rigore di Jorginho, ci giochiamo la finale.

Nessuno respira, siamo tutti abbracciati col fiato sospeso…C’è il suo saltello, il piattone si allarga e noi esplodiamo di gioia. Delirio. Si balla, si salta, si beve, Si alza il coro “Popopopooooo”, Si canta l’Inno, tutti insieme, tutti abbracciati, come all’inizio.

SIAMO IN FINALE.

Si dice che casa è il luogo dove sta la gente che ti vuole bene, nonostante fossero degli sconosciuti, eravamo italiani e questo bastava per volersi bene. Beh, poche volte come quel giorno mi sono sentito a casa, nonostante fossimo in trasferta.