Tra le sorprese di questo inizio stagione nei principali campionati europei, non possiamo non menzionare il RasenBallsport Leipzig. Squadra neopromossa nella Bundesliga che, dopo dodici giornate di campionato, è da sola in testa al campionato con tre punti di vantaggio sul Bayern Monaco di Carlo Ancelotti. La storia di questo sodalizio è molto breve e nasce dal desiderio della nota multinazionale austriaca Red Bull di istituire in Germania un club calcistico, da inserire nella sua galassia di squadre già esistenti: il Red Bull Salisburgo in Austria, i New York Red Bulls negli Stati Uniti, il Red Bull Ghana e il Red Bull Brasil di Campinas in Brasile. Alla fine la scelta cadde, nel 2009 sull’acquisizione del SSV Markranstädt, non senza il malcontento dei suoi tifosi, che inscenarono numerose proteste per la scelta di cancellare di fatto la storia del piccolo club e istituire una squadra nuova; squadra allora militante nella quinta divisione regionale e che divenne Il riferimento calcistico del marchio austriaco in suolo tedesco. In pochi anni la nuova proprietà è riuscita a portare il sodalizio da divisioni semi professionistiche alla Bundesliga, riuscendo ad ottenere risultati lusinghieri sin da subito, tra l’altro con una squadra costruita senza nessun investimento faraonico e sapientemente guidata sotto il profilo tecnico. Basti pensare che l’acquisto più oneroso, quel Naby Keita già nella lente di ingrandimento dei principali top club, è arrivato dalla squadra “gemella” di Salisburgo. Una piccola realtà che, grazie all’investimento di un colosso mondiale, è diventata un fenomeno di attualità che sembra non voler smettere di regalare sorprese. Nel calcio si sa che il “mecenatismo” locale, in cui numerosi club incarnavano, a livello di proprietà, realtà imprenditoriali del territorio sta scomparendo sempre più, vuoi per la crisi economica, vuoi per un sentimento di disaffezione: oggi, nel mondo globalizzato, vediamo sempre più investitori stranieri che acquisiscono società sportive. Anche in Italia vediamo come come queste nuove proprietà, provenienti da paesi e spesso anche culture lontane, siano già arrivate o stiano per arrivare, rilevando le società e investendo in esse, spesso con progetti molto ambiziosi che vanno anche oltre il semplice discorso sportivo, proponendosi ad esempio di valorizzare la città in cui vanno ad insediarsi a livello commerciale o turistico; se queste sono pratiche non speculative ma di investimenti seri, con intenzioni serie di investire su un patrimonio locale com’è una squadra di calcio, ben vengano gli investitori stranieri, sia chiaro. Per quel che concerne l’RB Lipsia però, c’è un particolare che a mio avviso disturba e che non mi fa riuscire semplice ritenere questa realtà una “favola” come alcuni l’hanno descritta. Al di là dei risultati lusinghieri ottenuti, la reputo infatti una squadra vuota. In che senso ? la Red Bull ha ormai da anni iniziato una pratica a livello mondiale centrata sulla creazione di realtà sportive caratterizzate dalla predominanza del marchio sui colori e le tradizioni: le squadre non sono altro che emanazione della “ditta” anche per quel che concerne il nome, il simbolo e i colori sociali. Nella fattispecie del calcio assistiamo ad un comune denominatore in tutte le squadre a marchio Red Bull: colori sociali totalmente uguali e stemma anche, con l’unica variabile nel nome della città di appartenenza del team. Processo simile attuato nel progetto di mondializzazione del “City Football Group” dell’era Khaldoon-Soriano, in cui l’acquisizione di club stranieri da parte del gruppo è accompagnato dalla sostituzione dei colori sociali con lo “sky blue" tipico dei Citizens e l’inserimento della parola “City” nel nome del team; con questo processo, nel 2013, venne creato il New York City e, nell’anno successivo, vennero acquisiti i Melbourne Heart, trasformati in Melbourne City. Questi esempi di espansione economica nel mondo del calcio aprono, se moltiplicati nei metodi, a scenari inquietanti: entrare in una società, seppur piccola come negli esempi precedenti, e, con un colpo di spugna, cancellarne simbolo, colori e di conseguenza storia porterà, se questo fenomeno si andrà, negli anni, a diffondere a macchia d’olio alla progressiva creazione di squadre, magari fortissime, ma sostanzialmente vuote, perché totalmente scollate dall’ambito territoriale di appartenenza e, conseguentemente, alla nascita squadre mondiali, apolidi; che gareggiano sì in determinati campionati ma che non sono altro che emanazione, nel simbolo e nei colori sociali, del gruppo che investe su di loro. Il calcio è uno sport fatto sì di gioco sul campo, di campioni ai quali ci si affeziona e di vittorie; ma è anche sport di colori, di simboli dietro ai quali si celano storie e tradizioni, anche millenarie, legate alla città di appartenenza; di sfottò e di rivalità che, se sane e che non diventano esasperazione, sono il sale di questo sport. Creare sorte di “cloni” non è altro che trasporre un fenomeno che in politica prende il nome di “mondialismo” all’interno del panorama calcistico; ecco perché impedire l’arrivo di capitali stranieri trovo sia un qualcosa di totalmente folle nel 2016 ma allo stesso tempo credo che, chi arriva in una squadra, anche se piccola o di “seconda fascia”, debba calarsi totalmente nella sua storia, rispettandola come in certi casi accade, senza andare a creare automi totalmente scollati dall’ambito di appartenenza. Ecco perché io proprio non ce la faccio a considerare l’attuale situazione del sodalizio di Lipsia come una favola, piuttosto come un’operazione imprenditoriale ben riuscita; e tra favola e operazione imprenditoriale ci scorre un abisso in cui, alla lunga, muore l’essenza stessa del gioco del calcio.