Il virus contro cui stiamo combattendo in questi giorni ha rapidamente cancellato molte cose: la nostra routine quotidiana, tutto ciò che davamo per scontato. Ci ha costretto, nostro malgrado, a rimodulare le nostre vite ed è quasi passato sopra alle nostre emozioni, rendendo tutto piatto e indefinito.
Succede così che, a più di una settimana dalla sua scomparsa, mi rendo conto di non aver scritto nulla per Gianni Mura. Lo faccio soprattutto per me stesso; perchè sento di dover in qualche modo mettere nero su bianco quello che per me ha significato.

Sono ormai passati più di dieci anni quando, fresco di diploma e con più dubbi che certezze sul mio futuro, cullavo il sogno di conciliare in una professione quelle che erano le mie due grandi passioni: la scrittura e lo sport.
Fu così che iniziai a documentarmi leggendo i grandi giornalisti sportivi di tutti i tempi, guardando documentari e soprattutto scrivendo in prima persona per piccole realtà locali. Un chiodo fisso ricorrente nelle mie letture erano però Gianni Brera e Gianni Mura.
I due Gianni, il maestro e l’allievo, autentici numi tutelari del giornalismo sportivo ma non solo, dal momento che entrambi cullavano interessi che andavano ben oltre.
Brera, purtroppo, l’ho potuto leggere solo post mortem, al contrario invece ho avuto la fortuna di vivere, per qualche anno, il giornalismo di Mura. In particolare in quello che è il mio sport preferito alla pari del calcio: il ciclismo, di cui Mura era specializzato, avendo seguito come inviato il Tour per anni.
Alla fine il mio sogno di fare il giornalista sportivo si scontrò con altre esigenze e dovetti accantonare l’intento ma non la passione che rimase e rimane invariata. Ho continuato a leggere e apprezzare Mura e i suoi scritti che parlano di sport ma in una dimensione in cui riferimenti ai classici della letteratura e alla mitologia sono all’ordine del giorno.
Un giornalismo che non solo informava ma educava alla bellezza della cultura; che citava Baudelaire ma che, allo stesso tempo, ammoniva sull’utilizzo di alcuni cliché tipici del giornalismo; “hai mai sentito in un bar usare il termine spalti?” ammoniva spesso il grande Gianni.

Con Mura ho amato per due volte Pantani: la prima, da bambino, istintiva e fortissima; la seconda, non meno forte, dopo aver letto, anni dopo, il suo commovente articolo di commiato per il Pirata.
Mi accomuna con Mura anche la passione per il cibo e per il buon vino e mi piace pensare che il prosieguo della mia carriera lavorativa, distante dal giornalismo sportivo, sia in qualche modo comunque collegata all’influenza virtuosa che ha esercitato su di me.

Mancherà, lui e i suoi scritti. 
Ci lascia in eredità però un patrimonio di cultura che riluce nei suoi articoli e nei suoi libri; un esempio che non va dimenticato.
Un saluto commosso da parte di un suo grande ammiratore.
Lascio un estratto di quel suo meraviglioso e commovente articolo, apparso su Repubblica all’indomani della scomparsa di Pantani.

Il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all'opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Il ciclismo senza Pantani era ed è, così appare in questo momento tristissimo, una minestra assolutamente senza sapore. Un palcoscenico senza un primattore, con volenterosi caratteristi che però non riescono a dare una scossa al cuore del pubblico. Pantani ci riusciva benissimo, era la sua grande specialità. Pantani sulle salite era l'equivalente dell'acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria. Erano gli altri a non reggere il suo passo, che all'inizio sembrava quello sghembo, di un arrotino, lo zigzagare incerto di un aratro, ma più la salita assumeva pendenza più diventava una condanna, una specie di campana a morto per chi doveva inseguire e non ce la faceva assolutamente a tenere quel ritmo. Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: "Perché vai così forte in salita?". E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: "Per abbreviare la mia agonia". Ecco, pensando a questa frase ho fatto i calcoli: la sua agonia è durata qualcosa meno di cinque anni. Però è stata un'agonia. Pantani è stato troppo grande in bicicletta per accettare di essere piccolo, peggio di essere rimpicciolito per legge, di essere uno come tanti. Non era questa la vocazione, non era questo il suo destino. La sua vocazione era quella di svegliare le montagne.
Pantani, negli ultimi anni, era un uomo molto solo, anche se attorno poteva avere tanta gente. Era la solitudine di chi non riesce più ad accettarsi così com'è, e nemmeno la vita che questo comporta.
Gli sia lieve la terra, al fondo di questa lunga discesa. Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline
". (Gianni Mura, Repubblica 15 febbraio 2004)