L'allenatore: un lavoro che tutti vorrebbero fare (o meglio, che tutti si sentono legittimati a fare) ma che poi in pochi sanno portare avanti con profitto. Nello specifico ambito del calcio, si passa dai formatori (più che allenatori, così almeno dovrebbero essere) dei settori giovanili, ai tecnici di prime squadre o, gradino più alto, di squadre professionistiche. Un bravo allenatore, al giorno d’oggi, non può solo preoccuparsi della parte tecnica del suo lavoro: il gioco, gli schemi, la tattica sono sicuramente un punto centrale ma a questi vanno affiancate doti di leadership, di lettura delle situazioni di spogliatoio e di gestione di delicate dinamiche personali; un allenatore completo è, insomma, un po' tecnico di calcio, un po' psicologo più altre doti annesse. Tra i vari tecnici, per comodità, si è sempre parlato di "scuole" per rappresentare un filone stilistico di appartenenza: tra queste, la "scuola italiana" di allenatori è, da più parti, ritenuta tra le più nobili e antiche del panorama calcistico. Essa si fonda essenzialmente su una grande organizzazione tattica e difensiva, diretta emanazione del catenaccio di scuola svizzera ed è un’autentica palestra da cui nessun allenatore che ambisce a diventare grande può esimersi. Al suo fianco possiamo menzionare la "scuola inglese" che, da sempre, si fonda invece sull'alta intensità e gioco verticale, scevro da particolari vincoli tattici; altro filone, che ha rivoluzionato il modo di vedere il calcio, è sicuramente quello olandese e che è poi l'essenziale apripista di quella scuola spagnola (o per meglio dire catalana) che a partire dal Barcellona di Cruijff arrivando poi a Guardiola, ha portato al cosiddetto “tiki taka”. Tanto una delizia per gli occhi degli appassionati di calcio, quanto una tragedia nel momento in cui è stato preso d’esempio da qualche invasato, narciso, allenatore di giovanili che, dimenticando che ai bambini vanno insegnati i fondamentali, ha pensato bene di ergersi a “nuovo” Pep.

Uscendo dall’Europa, possiamo menzionare la “scuola” latino-americana che, tuttavia, ha più che altro sempre fatto leva su principi di individualità e di spettacolo; questo non significa che, negli anni, non siano usciti dal continente americano allenatori validi ma nessuno con un’idea così forte da creare una vera e propria “scuola”. A fianco di questi “filoni” storici ce n’è un altro, forse meno caratterizzato da legami tattico-stilistici ma più nazionali e, a mio giudizio, altrettanto interessante: la “scuola” portoghese di allenatori. Era il 2005 quando il Porto di Josè Mourinho vinse la Champions League e portò il tecnico lusitano alle luci della ribalta. Lo “special one” proseguirà poi la sua carriera tra Inghilterra, Italia e Spagna ottenendo, ad oggi, trofei ovunque abbia allenato e imponendosi, di diritto, tra i migliori allenatori della sua generazione. Alla base della sua fortuna vi è sicuramente una grande leadership e personalità, unite alla capacità di creare legami molto forti con il gruppo (quest’ultima non sempre gli è riuscita) e, tatticamente parlando, un grandissimo pragmatismo che lo ha portato a scelte particolari in virtù del successo della squadra (l’esempio lampante e spesso utilizzato è quello di Eto’o esterno nell’Inter del triplete). A dire il vero, va detto che il grande padre della cosiddetta “scuola portoghese” è l’attuale tecnico della Colombia Carlos Queiroz; che ha vinto meno trofei di Mourinho ma che è il primo ad aver messo in pratica la cosiddetta “periodizzazione tattica”, teorizzata proprio in Portogallo (e sulla quale non mi dilungo perchè bisognerebbe scrivere un pezzo a se’)  e che ha visto poi in Mourinho il suo massimo esponente.

L’allievo più in vista di Queiroz e Mourinho è senza dubbio Andrè Villas Boas: il neo tecnico del Marsiglia, a lungo vice di Mourinho, non ha, al momento collezionato i successi del suo maestro ma, quando decise di staccarsi dallo “special one” per intraprendere la strada da primo allenatore, venne celebrato come uno dei migliori allenatori emergenti, ponendo nuovamente accento su questa nuova leva di tecnici portoghesi. Dopo quelli che possono essere considerati i “capostipiti” di questa nuova leva di allenatori, se ne sono susseguiti altri che hanno avuto la bravura di mettersi in mostra spesso non in contesti super blasonati. Ne tralascerò sicuramente molti, i primi che mi vengono in mente sono due allenatori, Nuno Espirito Santo e Marco Silva, che, nella Premier monopolizzata dal duo Klopp-Guardiola e da squadre con valori tecnici nettamente superiori, hanno avuto la bravura di portare i loro rispettivi sodalizi, Wolverhampton ed Everton, al settimo ed ottavo posto in campionato, alla soglia della zona coppe.

Nel 2017, anno della nefasta finale di Berlino, la Juventus affrontò in semifinale una squadra di giovanissimi (tra cui figurava Mbappè): era il Monaco, guidato da Leandro Jardim proveniente da Madeira, come Cristiano Ronaldo; un allenatore che ha messo in mostra tutte le sue doti nel creare sodalizi quasi invalicabili e in grado di non portare timore reverenziale verso chicchesia. Basti pensare che, sempre Jardim, portò due anni prima il Monaco ad affrontare sempre la Juventus ai quarti di finale della medesima competizione. Un allenatore molto preparato, ultimamente un po' uscito dai radar complice una stagione non entusiasmante al Monaco ma sempre cal centro di voci di mercato. Addirittura si era vociferato che Mendes lo volesse portare alla Juventus due anni fa, quando sembrava che Allegri volesse lasciare dopo la finale persa contro il Real. Altro allenatore Portoghese di assoluto valore è Paulo Sousa, transitato in Italia alla guida della Fiorentina e fautore, soprattutto nel primo anno, di un calcio molto gradevole fatto di possesso palla e occupazione degli spazi; un gioco da più parti etichettato come uno dei migliori di quella serie A. A Sousa va, inoltre, dato il merito di aver lanciato e consacrato due dei migliori talenti del calcio italiano: Bernardeschi e Chiesa.

Direttamente dal Portogallo, vengono dati in rampa di lancio i nomi di Bruno Lage e Sergio Conceiçao, vecchia memoria del calcio italiano, rispettivamente allenatori di Benfica e Porto a testimonianza di una “scuola” di giovani allenatori portoghesi sempre più in rampa di lancio. Ovviamente non possiamo non menzionare Bruno Santos, vincitore dell’europeo con il Portogallo e l’ultimo arrivato e, a quanto pare, prossimo allenatore della Roma: Paulo Fonseca. Nativo di Maputo, Mozambico, ex colonia portoghese, è un allenatore giovane, fautore di un gioco offensivo e anche lui allievo di Queiroz. In Ucraina, alla guida dello Shakhtar, ha vinto tutto quello che si doveva vincere e l’anno scorso ha affrontato la Roma stessa agli ottavi di Champions. Un altro allenatore portoghese in rampa di lancio.

Ecco alcuni esempi di quella che, secondo me, è la “scuola” di allenatori che attualmente riscuote più fascino ed interesse. Certamente ad emergere alcuni di questi allenatori ci ha pensato il potente procuratore Jorge Mendes e l’interesse verso il calcio portoghese scaturito dall’avvento di Cristiano Ronaldo. Tuttavia non vanno trascurate le doti degli stessi: virtù sia di leadership che tattiche unite al cosmopolitismo tipico dei portoghesi che li rende perfettamente adattabili a paesi e culture diverse (in questo caso ci limitiamo a trattare l’aspetto calcistico, ovviamente).