Un divorzio annunciato per tutta estate e alla fine consumatosi. L’addio di Roberto Mancini, alle porte del campionato e a mercato quasi concluso, venne accompagnato da numerosi dubbi: in primis ci si interrogò su chi potesse essere il sostituto, un traghettatore in attesa di un “big” (Simeone ?) dalla prossima stagione o un profilo su cui costruire un ciclo. Alla fine si optò per Frank De Boer, allenatore in rampa di lancio dopo un ciclo all ‘Ajax in cui ha lanciato moltissimi giocatori interessanti (basti pensare ai vari Alderweireld, Klaassen, Bazoer, Tete, El Ghazi fino ad Arek Milik, diventato sotto la guida dell’olandese un centravanti di dimensione europea); una scelta ritenuta da molti come il tentativo di iniziare di un ciclo, sicuramente coraggiosa perché scegliere un allenatore proveniente da una cultura calcistica agli antipodi rispetto a quella italiana sicuramente non è una mossa convenzionale. Una sorta di rivoluzione. Una squadra totalmente da esplorare, una lingua nuova da conoscere e soprattutto un campionato totalmente nuovo. Ovviamente i risultati ottenuti fino a questo punto dal tecnico olandese sono stati tutt’altro che convincenti, l’Inter è una squadra che già dalla scorsa stagione è stata allestita per coltivare ambizioni elevate; con Mancini sarebbero arrivati risultati nettamente migliori ma se si era deciso di cambiare, seppur con tempistiche a mio avviso errate, ci si poteva accollare questo rischio. Tra i risultati deludenti della gestione De Boer e la scelta di esonerarlo, però, mi sconcerta decisamente di più la scelta della società di cambiare. Come si poteva infatti pensare che, alla luce delle novità rappresentate del nuovo allenatore sopra elencate, da subito si potessero ingranare successi e raggiungere una posizione soddisfacente di classifica ? tutti conoscevano De Boer, la sua storia calcistica e la sua carriera di allenatore. Proviene da una scuola, quella olandese, fatta di metodologie di lavoro particolarissime, uniche nel vecchio continente, e con dettami tattici precisi, particolari che necessitano di tempi lunghi per essere appresi alla perfezione. Arrigo Sacchi, appena dopo il suo arrivo, sulla Gazzetta affermò che, qualora gli fosse stato dato il tempo necessario, in una cultura calcistica frettolosa come la nostra, avrebbe sicuramente fatto bene. Quel tempo non gli è stato dato. Pare che la goccia che ha fatto traboccare il vaso siano state le continue esclusioni di Gabigol, arrivato per cifre elevate e con le stigmate del predestinato e ancora materia oscura; anche in questo caso però, basta far riferimento alla scuola, quella olandese, a cui l’allenatore fa riferimento: una scuola in cui l’armonia del gioco di squadra viene prima delle individualità e in cui il giocatore viene visto come un numero inserito in un progetto collettivo. Anche in quest’ottica vanno viste le esclusioni di Brozovic e Kondogbia. Guardate Van Gaal, mentore del giovane De Boer, e le sue scelte impopolari fatte negli anni, in cui molti giocatori lo hanno accusato di averli distrutti e capirete molto. Lecito pensare che questa prospettiva possa essere dannosa e forse troppo estrema, ci sta, ma tutti sapevano il modo di intendere il calcio di De Boer quando è stato scelto. E se ciò, invece, ha rappresentato una sorpresa, allora il problema è di chi dovrebbe gestire in società la scelta degli allenatori, che forse non ha le idee totalmente chiare. Se quindi non si affianca agli investimenti mastodontici, un progetto di costruzione di squadra serio, che passa inevitabilmente dalla costituzione di una dirigenza dal polso fermo e con idee stabili nel tempo, non si va da nessuna parte. In Italia si crede che con un colpo di spugna si possano cambiare le cose; la presunzione più assurda è pensare che chiunque arriverà adesso, scelta di urgenza e di ripiego, possa cambiare tutto, subentrando in corsa e trovandosi una squadra totalmente nuova. Le rivoluzioni, se le si vogliono portare avanti, necessitano del coraggio, del sostegno e della perseveranza di credere nella bontà di un progetto che viene sposato.