Sono tutto sudato. Sarà il caldo, la tensione, l’adrenalina del momento? Sento i muscoli tesi, i piedi doloranti, la fronte madida ed il corpo alla ricerca affannosa di un ristoro. Vedo, con le poche forze nervose che mi sono rimaste, i giocatori, gli amici, i compagni, correre davanti a me, sudati, tesi, nervosi e come in trance.
Il campo, perfetto all’inizio della partita, si è trasformato in uno di quei prati di periferia su cui giocavo da piccolo, le porte fatte con i maglioncini tolti al sole della primavera e le buche immancabilmente ancora piene d’acqua dopo mesi di siccità. Già, è vero, da bambino non ero certo il più bravo sul campo, ero grassoccio, impacciato, e non certo il più alto di tutti. Ma correvo e mi impegnavo sempre più degli altri, mi dava fastidio perdere e prendevo con grinta tutti i compiti che mi venivano assegnati. 
La vita mi aveva portato ad abitare vicino ad una grande piazza di Torino, un crocevia di cinque importantissimi corsi. Al centro, una grande aiuola di cemento e ghiaia, ora trasformata in un parcheggio, era di dimensioni perfette per poter contenere un campo da gioco. Porte immaginarie, ma spazio per dribbling e tiri anche forti, che puntualmente finivano in mezzo alla strada, o tra le grinfie del benzinaio e dell'edicolante. Il traffico allora, nella Torino che cresceva a vista d’occhio degli anni sessanta, era impetuoso, caotico, gestito da semafori eterni che generavano code e incidenti. La palla calciata con foga verso le porte immaginarie volava verso le strade. Il pallone, a volte un Tango leggero, o a volte qualcosa di più pesante e stabile, rimbalzava sui cofani, sui parabrezza, tra le ruote e correva da una parte e dall’altra della piazza enorme. Era un compito arduo saltare sulle auto per andare a prenderla ed anche abbastanza rischioso. Sempre che si riuscisse a ritrovarla. Quanti automobilisti aprendo velocemente la portiera si appropriavano del pallone, quante volte la palla restava sgonfia ed urlante sulla strada schiacciata dalle ruote dei Filobus o dei tanti camion imponenti delle imprese di costruzioni. Senza contare l’edicolante e il benzinaio che, stufi di ricevere pallonate sulle vetrine traboccanti di giornali e sulle pompe mentre servivano i clienti, vivevano muniti di coltello da usare inopinatamente sull’oggetto della loro disperazione, naturalmente con l’approvazione e l’applauso di tutti gli anziani nonni che cercavano di trascorrere le giornate seduti sulle panchine (facenti parte, purtroppo, del campo) con i loro piccoli nipoti sempre a rischio. Fortunatamente per noi ragazzi non ci sono mai stati problemi di salute, ma di palloni ne servivano almeno quattro o cinque alla settimana. E se non ci avessero pensato i genitori sarebbe stata la sorte magica a procurarli.
Mi sembra d’essere ancora su quel campo dicevo, mentre la partita che gioco sta diventando dura, sento le forze abbandonarmi, il senso di nausea da sforzo sempre più feroce, e le grida del pubblico più lontane, come disperse nell’immensità del campo. Ho caldo e sudo, vorrei bere, non posso. Corro.

Ricordo ancora il provino, a undici anni, sul campo della quadra che più avevo ed ho odiato in vita mia.
Idea di mio padre, per farmi crescere caratterialmente e fisicamente, per darmi una regola non solo scolastica nella vita.
Bene, passo il provino, mi dicono di andare il mercoledì dopo al primo allenamento. Il prato dove corro, sotto gli occhi di alcuni allenatori ed ex giocatori che adesso sono leggende del calcio, ma allora erano tranquilli vecchietti in tuta, è di fianco a quello in cui si allenano i campioni della squadra più titolata e seguita dai tifosi italiani. Non credo ai miei occhi, gioco accanto ai giocatori immortalati sulle figurine. Certo sono quelli sbagliati, sono quelli che non mi sono mai piaciuti, ma fa lo stesso. Accetto, anche verso i compagni di classe invidiosi, l’onta di vestir quella maglia. Naturalmente mi impegno, do soddisfazione all’allenatore che mi inventa terzino sinistro. Marco a uomo l’ala destra degli altri, quello con più estrosità nel dribbling, nella corsa, nel raggiungere il fondo e crossare ed imparo a non farla passare, sia con le buone che con le cattive. Svolgo il mio compito, e non troppo male. Per tutto l’anno due volte alla settimana, mercoledì e sabato, sono al campo dei campioni. Ma è dura, per tanti motivi. Prima la scuola, che mi richiede d’essere presente tutti i pomeriggi tranne il mercoledì e il sabato, e non trovo tempo per me, quasi nemmeno per studiare adeguatamente, soprattutto l’ostico latino. Poi, purtroppo, mi tocca vestire quella maglia, a righe, che proprio non mi va giù. Sto iniziando ad andare allo stadio a tifare per i miei colori, quel granata così sanguigno e grintoso. Da pochi anni è morto Meroni, il mio idolo, e sulla città si sente ancora il brivido della scomparsa del Grande Torino nel pomeriggio del 4 maggio 1949. Vestire la maglia bicolore diventa un sacrificio troppo duro per il bambino, l’ometto, che ero. Finito il secondo anno di pulcini, piangendo, a dodici anni, un sabato non scendo nemmeno dalla macchina e mio padre capisce, e se ne fa una ragione. La maglietta finisce sul balcone, a fare lo straccio per pulire i pavimenti ed io respiro, finalmente, libero da un gravoso impegno.
Ma adesso sento la palla correre pesante tra i piedi dei compagni e degli avversari, sento che non riesco più, fisicamente, a seguire le azioni, nemmeno a pensare, a parlare, a gridare a questo o a quell’amico, o all’arbitro. Maledetto quest’arbitro, sta fischiando tutto contro di noi, con la faccia severa di chi conosce i metodi per portare la partita dove vuole il suo portafoglio, o peggio, la sua personalissima ambizione di gloria futura.
Ma quando finisce questa partita, quando fischia l'uomo nero?
Sono esausto, tutti i ricordi mi passano davanti. Tutti i falli che ho fatto e quelli brutti subiti, le storte, la rottura del braccio, il maledetto ginocchio che ha ceduto in corsa. Ricordo la pioggia, il fango, quel pallone di cuoio marrone arrivato dall’alto proprio sul naso, che se voglio sento ancora in bocca il sapore del sangue. Ricordo il pallone che rimbalza sul campo sintetico dell’albergo di Cuba e quello di un’assurda partita giocata a mezzogiorno a Creta. La sabbia di Copacabana, i piedi attanagliati e i brasiliani che corrono senza toccar terra, ed una sfida in Senegal, sulla spiaggia, da non veder la palla tra i watussi e il sole. I tornei di notte con amici e conoscenti spesso troppo suscettibili, qualche botta e molte risate. E tutti gli affetti sinceri che ho avuto nel tempo bazzicando per caso eper lavoro nel mondo dorato del calcio. I racconti, le ore passate con i professionisti, allora poco più che ragazzi, a sentire le loro storie, raccontare le mie. Condividere emozioni, vittorie, soprattutto sconfitte, in ogni campo, in ogni ruolo. Vedere nei loro occhi, sempre alla ribalta sulle pagine dei giornali ma sinceri nel passare le ore della vita normale, tutta l’umanità che hanno portato e portano, in silenzio, nel cuore. Sono loro, i campioni, ben consci che presto, forse tre, dieci, quindici anni, tutto il clamore finirà ed inizierà un’altra vita, senza riflettori, fatta di famiglia e problemi, non di ritiri ed auto veloci, non di ricchezza e donne da scegliere. Una vita reale che molti non hanno nemmeno l’idea di come affrontare.

Dai, facciamo insieme l’ultimo sforzo. Mi tendo alla ricerca di una soluzione, il campo è pesante, l’appoggio incerto, i muscoli sembra ancora che reggano, il cuore non so, ma devo resistere. Il ragazzo corre sul fondo, lui è bravo, lui può inventare qualcosa. Si ferma, alza gli occhi e vede qualcuno che corre verso l’area avversaria. Il portiere si accorge di quella maglia sporca d’erba e di gesso, chiama lo stopper per nome, ed il libero con un grugnito. Ma è tardi. Il centravanti, il ragazzo più alto, ha ancora un briciolo di potenza in quelle gambe legnose, ed arriva veloce. L’ala, il funambolo, quello che nello spogliatoio chiamano Cimabue, perché fa un dribbling e ne sbaglia due, chiude gli occhi e fa il cross…Di testa ci arriva il ragazzone ingenuo, spizzica quella palla con la sabbia dei capelli ed è gol. Il portiere si arrabbia. Tutti corrono verso l’eroe.

Meno male, abbiamo vinto. Mi sdraio sul divano di fronte alla televisione. Sono esausto, felice ma esausto. Ho perso energie e speranze ma ora è finita, ed è finita bene. Vorrei gridare, non posso, la famiglia è addormentata nelle stanze vicino. Ma sarebbe da andare a gridare ai venti e alle stelle la felicità di questo momento. Nulla mi potrebbe fermare. La vittoria è arrivata, e stasera posso sorridere un po’. I muscoli fanno male e la testa mi scoppia devo correre a letto prima che arrivi l’infarto. Mi concedo una birra.
Domani si torna al lavoro.

Claudio Calzoni