Avevo dodici anni, era il settantuno. Per farvi ricordare o immaginare quei giorni potrei parlarvi dei mondiali dell’anno prima, con quella notte insonne di Italia-Germania 4 a 3; delle missioni Apollo sulla Luna o, come pensava mio nonno, girate in un film nel deserto del Nevada. Erano i giorni delle botte operaie nelle strade e dell’apparizione mitica dei Delirium a Sanremo. A quei tempi vivevo nel borgo operaio più a ovest di Torino, lontano dalle fabbriche e vicino ai prati ancora coltivati della Pellerina. L’aria, anche se puzzava un po’ del vino versato nelle “piole”, era limpida e tersa come le mie giornate, passate a scuola anche al pomeriggio. Anche se il boom economico aveva richiamato tanta gente la città era vivibile e tra vicini di quartiere ci si conosceva tutti, ci si salutava, ci si aiutava.

Ero fortunato. I miei da poco avevano traslocato, lasciando il vecchio e buio alloggio al piano terreno di una vecchia casa per il solare alloggio del dopoguerra al terzo piano, senza ascensore, con vista sulle Alpi e sulla piazza.

La piazza, piazza Rivoli, era il centro trafficato dei corsi di quella parte di città. Aveva due aiuole asfaltate, sei panchine, un distributore ed un chioschetto per il giornalaio. Se non ero a scuola, o davanti a un libro di Kolosimo, ero lì. Ed eravamo in tanti, una ventina, a contenderci il pallone, che schizzava spesso nel traffico dei corsi, batteva sulle auto, si schiacciava sotto le grandi ruote dei filobus e rimbalzava lontano con i più grandi e coraggiosi dietro, a schivare automobili e tram, per recuperarlo. Ricordo che nessuno di noi aveva chi lo controllasse (i genitori erano impegnati, lavoravano tutti) ma bastava la presenza, sempre sulla stessa panchina, di un vecchietto alto ed ossuto con il berretto in testa. Era mio nonno, classe 92, reduce della campagna di Libia e della grande guerra. Faceva finta di non guardarci, lui che, come tanti allora, aveva visto giocare e sentito nel cuore il Grande Torino, ed in ogni ragazzo cercava tocchi e paragoni con gli eroi caduti. Poi le domeniche si faceva festa, si andava via in macchina, a sedersi su un prato in montagna o lungo il fiume a simulare le spiagge irraggiungibili, con la radio accesa e “Tutto il calcio minuto per minuto”. Tutto questo per farvi ricordare quante cose non ci sono più: i ricoperti, gli stick alla menta, l’Ovomaltina, l’amicizia dei bimbi, il sorriso, l’umiltà, la gioia del riposo, i cinema di terza visione…

Avevo dodici anni, ed era sempre il settantuno. Anzi il settanta quando incominciai.

Un mercoledì pomeriggio, l’unico giorno della settimana in cui non andavo a scuola, mio padre mi invitò a seguirlo al lavoro, all’officina di elettrauto in cui avevo ed avrei passato molti periodi vacanzieri, e con mia sorpresa mi portò allo stadio (il vecchio Comunale). Entrammo insieme dalla parte proibita al pubblico, dal tetro e ferroso cancello di Via Filadelfia, l’ingresso degli spogliatoi della Juve. Ho ricordi vaghi, ma in men che non si dica mi ritrovai nei freddi corridoi sotterranei della struttura mussoliniana con le scarpe da calcio (i tacchetti battevano sul pavimento di ceramica) e la maglia a strisce addosso. Stavo andando verso il campo di allenamento delle giovanili, Il Combi, giusto al di là della strada, insieme ad una ventina di altri ragazzini che naturalmente non mi avevano degnato di uno sguardo.

Anche se i ricordi si ricorrono e non sono facili da decifrare, quell’entrata in campo avrebbe segnato la mia vita.

In quella immensa distesa di terra, fango e rari ciuffi d’erba, delimitata dalle due porte enormi provai, forse per la prima volta, il mesto senso dell’inutilità. Ero grasso, flaccido, impacciato e lento. Vedevo gli altri correre e non capivo nemmeno dov’era la palla. La palla, quell’insieme pesantissimo e viscido di cuoio e corda, molle a vedersi, non si faceva toccare, schizzava e batteva sempre lontano da me, che non sapevo neppure dov’ero. Quando arrivò dalle mie parti, e pensai di riuscire a prenderla, arrivò un po’ alta, giusto per la mia testa (oh quanti gol di testa facevo alle elementari). Naturalmente mi colpì violentemente sul muso, tra la fronte ed il naso, e non stramazzai a terra solo per evitare la vergogna degli insulti degli altri. Da allora se ricevo qualcosa in faccia sento perfettamente le stesse sensazioni, lo stesso gusto amaro di setto nasale incrinato, la stessa rabbia e lo stesso senso di sconfitta, ed il sapore schifoso del fango nella bocca. Non mi arresi. E il mercoledì dopo tornai, non che gli altri mi degnassero, ma almeno giocavo ed imparavo a soffrire. A quei tempi era importante imparare a soffrire, i miei nonni nella grande guerra e sotto il fascismo avevano sofferto di tutto, dalla fame al confino ed al campo di concentramento; mio padre soffriva tutti i giorni lavorando dodici ore sotto camion puzzolenti di gasolio e sporchi di grasso mia madre anche, lavorando in casa, facendo maglie a cottimo, per mandarmi a scuola). Soffrivo sempre o per il freddo o per i piedi a bagno nel fango se pioveva o nevicava. Soffrivo le parole dure dei responsabili dei “pulcini” il signor Pedrale, il grande “Sentimenti IV” mitico portiere della nazionale di vent’anni prima, che ci terrorizzavano.

L’allenatore mi inventò terzino, cominciai a correre e a dimagrire, a prenderla, a volte, e presi sicurezza, personalità. Giocai per un anno con quella maglia, a sinistra, perché nessuno voleva marcare l’ala destra, allora il vero perno del gioco, ed io, volente o no, mi sacrificavo. L’avversario mi saltava due volte, ma la terza era per terra, “non ti ho toccato” dicevo e cominciavo a divertirmi.

Che palla di racconto, vero? Ma è un racconto di calcio, ed il calcio si gioca con la palla.

Partita di campionato, stadio comunale, Juve-Inter (Haller, Causio, Facchetti, Mazzola, insomma quella gente lì…). Noi piccoli destinati ad intrattenere il pubblico con la partitella in famiglia, i pulcini bianconeri titolari contro gli scarsi, i rincalzi da far giocare in rosso. Naturalmente gioco con la maglia rossa numero 3. Usciamo dai corridoi degli spogliatoi che tremano le gambe, saliamo tutti insieme la scaletta e poi fuori nello stadio immenso, le gradinate piene, il pubblico che grida. Avete capito che io non sono della Juve (come fede calcistica intendo) ed anche allora il mio cuore granata pulsava forte, ma stare su quel campo era bellissimo, anche perché non c’era fango tra quell’erbetta soffice.
Cominciamo a giocare, naturalmente male, perché ai più forti le gambe non giravano e l’emozione era grande, persino il pallone era diverso, tondo, leggero, rimbalzava pure.

Galvanizzato dalla folla mi sento forte come un eroe greco, faccio falli, anticipo, faccio cose in campo che non avevo mai fatto prima. Rubo palla al mio avversario al vertice della mia area, cerco vicino qualcuno a cui passarla, nessun terzino può permettersi di fare un dribbling dice la regola, ma non vedo compagni rossi dalle mie parti, e non ci sono maglie bianconere a disturbarmi. Guardo la palla e me la porto avanti, poi comincio a correre. L’allenatore grida, lo sento chiaramente “Vai da solo, supera la metà campo …”. Faccio tanti passi fino a quella linea, sento che il cuore scoppia. Arriva un avversario, è fatta, me la frega, penso. Passa la palla, lui va a vuoto, passo io e riprendo il pallone, “vai, vai ancora” non ce la faccio più, ma corro sempre avanti seguendo la linea laterale, e lo stadio è tutto un brusio (immaginate la scena, i tifosi venuti per vedere i campioni che guardano me, quel bimbo terzino e cicciotto che corre lento, con fatica, sulla fascia sinistra di quel campo enorme) ed un altro avversario arriva. Sono sfinito, calcio di sinistro verso l’area, tentando da lontano un cross improbabile. La palla arriva nell’area avversaria, batte, rotola tra le gambe del mucchio di giocatori. “Stai lì!” urla l’allenatore.

Sono al vertice sinistro dell’area avversaria. Il pallone rimbalza e torna verso di me. Calcio di nuovo, un altro cross, ma sbaglio, tiro troppo alto. Vergogna, penso, e con un gesto di stizza mi volto e torno verso la mia posizione, verso la mia area. Sento il boato delle urla del pubblico, ed applausi scroscianti. Ragazzi in rosso che corrono verso di me ad abbracciarmi e l’allenatore che dice “bravo Claudio”. Vi spiego. Il cross sbagliato era troppo alto per tutti, non per la porta. In volo si era trasformato in un tiro preciso nel sette ed il bimbo portiere titolare (magari è pure diventato famoso) non l’aveva potuto prendere.

Io, proprio io, avevo avuto la mia palla ed avevo fatto gol!

Finita la stagione non tornai più a giocare.
Era il Settantuno e avevo dodici anni, ero del Toro, quella maglia bianconera mi pesava troppo e non avevo il fisico. Ma un pizzico di gloria, sul campo, me l’ero ritagliata, e questo mi bastava, e mi basta ancor oggi che, vecchio e un po’ rimbambito, vivo di ricordi e spesso prendo ancora palle marroni di cuoio sulla faccia. E fanno male.

 

Clay Mc Pants