A volte ci penso. Sono nato il 30 aprile del 1959, dieci anni giusti dopo quel dannato 4 maggio 1949, il giorno della tempesta, del temporale, della nebbia e della morte.
Ho vissuto ascoltando le parole dei miei vecchi (quelli che allora vedevo vecchi, io che ero solo un bambino). Parlavano di Superga, di quella Basilica così bella, posta a guardia e protezione di Torino, trasformatasi, immersa tra la nebbia del pomeriggio piovoso, nella collina assassina, nel luogo più triste e tremendo di tutto il calcio Italiano. Ascoltavo quei discorsi accorati, pieni di fatalismo, mai troppo polemici o petulanti. Erano morti tutti, gli Invincibili e i giornalisti, i piloti e gli accompagnatori. Era morto il Torino, il Grande Torino come veniva già chiamato. Era la squadra di calcio che più rappresentava il dopoguerra Italiano. La squadra perfetta di bravi e tenaci ragazzi, con i volti sereni e tanta grinta da vendere, felici per il futuro radioso pieno di benessere da offrire ai propri figli, lontano, finalmente, dalle insidie, dalle fatiche e dai sacrifici della guerra. Tutto finito contro la collina, in quell'aereo schiacciato, tra corpi irriconoscibili e valigie per terra. A volte ci penso, e mi sembra di sentire il boato attutito dal temporale. Lo avevano sentito bene, sin dalla pianura. E nella nebbia di quel giorno di maggio molti corsero verso il colle. Nessuno poteva crederlo. Nessuno.

A volte ci penso, e penso a mio padre ragazzo, ed a tutti i tifosi, alle mogli, alle famiglie, quelle che allora (e ancor oggi nonostante tutto) erano la struttura portante di una nazione in costruzione. Penso a quanto poteva essere felice chi, dopo essere sopravvissuto ai bombardamenti e alle retate, correva in bici o a piedi allo Stadio Filadelfia per ritrovare i suoi idoli, come fossero un sogno, e guardarli giocare, ridere, scherzare, fare falli e segnare tanti gol.

A volte ci penso. Ho raccontato molto degli Invincibili, della loro storia, degli aneddoti che li vedono protagonisti nel mio libro "I luoghi del Toro" e non voglio tediare nessuno con storie che sanno d'antico e di dimenticato. A Torino molti posti parlano ancora di loro, sono andato a cercarli, e tra le mura di una città che non è poi cambiata così tanto, ho trovato le tracce. Ma, se nei cuori della gente torinese c'è ancora tanto, tantissimo Toro, poco si vede in giro. Certo lo scudetto del 1976 batte ancora nei cuori dei tifosi della mia generazione, quelli che vivevano nel ricordo ascoltato di Superga e nella magnificenza del gioco della squadra di Radice che con Castellini, Sala, Pecci, Zaccarelli, Graziani e Pulici aveva riportato il Torino alla gloria del mondo. E il granata è ancora il colore più bello delle bandiere che allietano i viali, nonostante sia il vessillo della tragedia del colle e della morte assurda di Gigi Meroni. Ma i giovani no, non sanno, e tanti di noi si sono stufati di raccontarlo.

A questo a volte penso. Sono passati decenni, abbiamo assistito a moltissimi tentativi più o meno palesi di rendere questa squadra, questi colori, una indefinibile macchia da cancellare dalla storia del calcio. Non ce l'hanno fatta, non ci sono riusciti. Tenuta in vita solo dalla passione di qualche folle (ricordate i famosi lodisti che salvarono il titolo sportivo dal fallimento, procurato, di Cimminelli ?), la società è stata, direi a forza, regalata all'imprenditore pubblicitario alessandrino che, ancor oggi, poco o nulla ha compreso di quel simbolo tenuto tra le mani come un giocattolo privato, una specie di scommessa in borsa che nemmeno ha qualcosa a che fare con il tifo. Certo nessuno può imporre al padrone, a chi mette i soldi, un modus operandi diverso da quello che l'imprenditore pensa, o crede, sia il più giusto. Ma stare nella torre di cristallo, non sentire, o peggio fare finta di non sentire, le istanze di chi, con il suo appoggio e con i soldi spesi allo stadio o negli abbonamenti televisivi (si chiamano tifosi), avrebbe forse motivo di essere ascoltato, non è certo il modo migliore per confrontarsi. E basterebbe poco. Molto meno di quanto chiunque pensi. Basterebbe ascoltare il respiro della città, della nuova città che sta formandosi sulle macerie dell'altra, della capitale industriale che ormai ha le fabbriche vuote ma i musei, le università e le vie del centro piene di gente e di giovani. 

Il cuore granata è meravigliosamente grande, ha saputo soffrire, ha vinto senza umiliare, perso senza abbassare la testa, e in città sapete cosa c'è dall'altra parte (il potere economico e politico, la strafottenza dei soldi, la fidanzata d'Italia e l'arroganza della vittoria a tutti i costi). Il cuore granata batte ancora forte, nonostante tutto.

In questi giorni lo si sente di più: si sale al colle, alla lapide che ricorda lo schianto, nascosta dietro alla Basilica e segnalata da un piccolo, minuscolo cartello (che non dia fastidio, mi raccomando). Si sale al colle, a sentire la Messa, con il capitano che legge le formazioni, e i ragazzini coi nonni a guardare giocatori distratti e dirigenti annoiati.
Ma per noi è un dovere, quasi una festa, un rito che non dobbiamo disonorare perché siamo del Toro. Siamo ancora del Toro. 

Clay Mc Pant's