Sarò breve. Torino ha perso.
Torino, abbandonata al suo destino senza guida, nella nebbia dell’indifferenza, sta andando verso il declino. No, non è perché Ronaldo se ne è andato, e neppure perché, sull’altra sponda calcistica del Po oggi, proprio oggi, l’allenatore Juric si è accorto che il suo presidente pratica l’Austerty e non ha soldi per far diventare competitiva una squadra raffazzonata. No, Torino è sul viale del tramonto già da un po’, da quando i centomila che lavoravano in una sola fabbrica sono diventati poco più di mille, da quando le vie del centro sono vuote di lavoratori e animate da studenti e visitatori. Torino è grande, non c’è il mare anche se è una delle città più belle e misteriose d’Italia, è una città che si è adeguata ai tempi, ha cercato di innovarsi e presentarsi al meglio. Ma non basta il turismo, soprattutto dopo la mazzata del Covid. Torino è città operaia, piena di lavoratori, di ogni terra e nazionalità. Lavoratori, meccanici, manovali, muratori, chimici, fabbri, tecnici specializzati e ingegneri, architetti. Torio è la città italiana dello Spazio, è stata capitale europea dell’auto, ha inventato la Rai, la Sip (l’antica società telefonica), l’Enel (la luce e l’elettricità in ogni casa), la Banca San Paolo, la Cassa di Risparmio (ora Unicredit). Nonostante tutto è la città del caffè (Lavazza) e degli Autotreni. Qui, tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento è nata l’imprenditoria italiana e, dobbiamo ammetterlo, anche molta cultura cresciuta in città ha avuto nel tempo rilevanza nazionale. Ma il torinese non voleva farsi notare, non amava farsi pubblicità (anche se la più importante agenzia pubblicitaria italiana era torinese). Bastava il cappello della Fiat, tutto il lavoro collegato a quelle catene di montaggio che davano da mangiare a panettieri, ristoranti, bar e supermercati. Erano in centomila, ora sono poco più di mille. La vocazione turistica ha illuso un po’ tutti intorno al 2006, a quelle Olimpiadi Invernali che hanno fatto scoprire i locali, lo struscio, la Torino notturna. Ora resta anche quello un sogno, con le mafie che si inventano, ogni tre, quattro anni, una nuova zona degradata da rilanciare, da riempire di giovani, di radical chic e di spacciatori notturni. Piove a Torino, non c’è il mare ed è a Nord, ma spariscono i parcheggi a scapito di piste ciclabili solcate da alieni in monopattino. Dopo il Covid non sanno nemmeno più dove andare, stanno a casa in smart working. Torino che perde.

Torino che perde Ronaldo. Non si è mai integrato in città, forse nemmeno in squadra, se la Juve è ancora una squadra e non un insieme di giocatori troppo pagati e sopravvalutati nel tempo. Certo dev’essere stato strano per uno come lui sedersi in panchina accanto a Rugani e De Sciglio (nomi a caso, non per offendere), sapere che le sue magliette le comprano in India, non certo in via Garibaldi. La società Juventus aveva un obiettivo preciso, è fallito. Nonostante lui, nonostante il marziano, l’uomo da centinaia di gol, la coppa dei campioni non è arrivata in bacheca. Stop ai milioni, al merchandising forsennato, al campione al di sopra di tutti. Bene per lui (un nuovo contratto, altri soldi, altri fans da spellare) e per lei, quella vecchia signora che ha forse capito che il lifting spesso diventa ridicolo, che i muscoli tatuati ed il sorriso di circostanza dell’uomo azienda possono rovinare anche il clima di uno spogliatoio abituato a vincere e tenersi sempre allerta (correre anche per lui? Ma chi me lo fa fare?). Ora vedremo. Certo a Torino non c’è più Ronaldo, il Cristiano più ricco dello sport, e molti non prenderanno più il treno per venirlo a vedere allo Stadium, e non ci saranno più scuse per chi è rimasto. L’assioma, sbagliatissimo da un punto di vista sportivo, che sta scritto sulle magliette, “Vincere è l’unica cosa che conta” diventa così un impegno più duro per chi rimane. Liberati da un peso, condannati a dimostrare qualcosa di più…

Dall’altra parte la Torino dal colore granata, reso pallido da sedici anni di presidenza Cairo, è alle prese con la solita commedia di inizio campionato. I risultati scarsi della stagione precedente, come ogni anno, hanno generato addii importanti (Sirigu su tutti) ma l’imprenditore alessandrino non solo finge di non accorgersi della pochezza dell’organico, impone al nuovo allenatore di turno il ruolo di Maestro di Calcio, di Sommo Vate pallonaro e, proponendo una rosa di giocatori raffazzonata (non è colpa loro), affida le speranze della tifoseria nelle mani del poveretto. A quanto pare il nuovo mister granata, il tal Juric, allievo e secondo di Gasperini per molto tempo, arrivato a Torino coccolato dal presidente e rimpinzato con un lauto stipendio (quasi a richiedere un motivato silenzio) si è espresso, proprio oggi, in modo chiaro in conferenza stampa. Le dichiarazioni sono sparite immediatamente dal canale della società, ma il concetto è stato bene espresso, ed aleggia tra le mura del Filadelfia. Insomma, l’allenatore ha più o meno espresso il concetto che né lui, né il suo staff, erano stati avvisati della politica d’Austerity della società. Buon uomo, ha vissuto su Marte in questi anni? Non sapeva che qui, da decenni, non c’è trippa per gatti? Che non esiste nemmeno una sede, che non c’è un centro sportivo, che la Primavera non ha un campo per giocare? Non se n’è accorto, negli anni di militanza nel calcio, che questa società monodirezionale e monomandataria ha una rilevanza di importanza e di credibilità pari a zero? Povera Torino, abbandonata e povera, impoverita e sfruttata.
Troverà la forza di cambiare strada?

Clay Mc Pants