1976. Il 30 aprile avevo compiuto i diciassette anni. Sapevo di entrare in un mondo nuovo, conquistavo le mie certezze e si moltiplicavano le ansie e le emozioni.
No, ragazzi, non credo che chi non ha vissuto, coscientemente, la Torino degli anni settanta possa capire cosa volesse dire vivere in quella città. Non riuscirò a spiegarlo in queste poche (lo prometto) righe e forse non voglio nemmeno farlo. La città sabauda era VIVA, c'erano gli operai che si muovevano, legando il respiro del traffico ai tre turni di lavoro alla Feroce. C'erano i figli degli operai, dei lavoratori, che iniziavano ad uscire dopo la scuola, si aprivano birrerie e discoteche e da qualche anno (tre o quattro) c'era la musica in giro e sui palchi del Palasport. C'erano i terroristi pronti a sparare, le camionette dei Carabinieri sempre in caccia di notte, le altane delle caserme con i militari con il colpo in canna e i giovani con il fucile puntato dietro i sacchi di sabbia. C'era la malavita bella, quella dei night e delle donnine, dei truffatori e delle corse ai Casinò di Sanremo o Saint Vincent ed i commissari in eterna lotta con il male che sembravano quelli dei film.
Stavo bene, andavo a scuola, anzi all'Istituto Tecnico, che il liceo era ancora una montagna troppo alta da scalare, l'obbligo dell'Università e dei cinque anni sembrava eccessivo per chi, come me, vedeva il padre e la madre lavorare dieci, dodici ore al giorno. Stavo bene, dicevo, e scrivevo poesie. Illuminato dai bagliori della musica, del prog (che adesso chiamiamo così ma allora che non aveva nome era una ragione di vita). Andavo in giro con la chitarra, i capelli lunghi e tutto quello che era necessario per divertirmi e conquistare cuori femminili.

La musica, dicevo, e le ragazze.
Improvvisamente stavo diventando vecchio, era il 30 aprile del 76 e compivo i diciassette anni. La scadenza non mi aveva permesso di prendere l'abbonamento allo stadio a prezzo ridotto (16 anni o militari in divisa) per tutto il campionato del Toro. Avevo potuto ancora andare a vedere qualche partita, in quell'anno storico dei granata, ma le compagnie femminili, le sgroppate in centro e in qualche discoteca pomeridiana e domenicale, avevano iniziato a farmi guardare in giro e spendere qualche soldino, naturalmente non guadagnato e "pesante" per il mio orgoglio. C'era poi la frequentazione assidua di ogni negozio di dischi, di ogni supermercato, di ogni anfratto della città alla ricerca di nuove uscite nel modo del vinile. Quei "complessi" di cui non si sapeva null'altro di quello che c'era scritto sulla copertina dei dischi e che raccontava e fotografava Ciao 2001, erano la vera molla di tutto un movimento, che nel '76 in realtà stava già spegnendosi, ma aveva mosso i cuori, le anime, le menti ed i sogni di tutta, o quasi, una generazione. Inutile elencarli ora, ma che vibrazioni!
Vivevo per il Toro, avevo giocato nella Juve, passavo le giornate a scuola e a cercare letture e musiche per sognare e costruire un nuovo mondo, una nuova umanità.
Quell'anno, il Torino aveva costruito la squadra perfetta, con l'allenatore giusto e la Juve, che a  febbraio aveva già vinto il Campionato, si dissolse come neve al sole. I ragazzi di Pianelli, dopo anni di campionati ad alto livello, dopo anni di vittorie nei derby e in coppa Italia, avevano trovato un allenatore giovane e innovatore, quel Gigi Radice che sapeva benissimo cosa chiedere ai giocatori ed aveva il modello del calcio totale olandese da seguire.
Ma io stavo diventando vecchio.
Ricordo la festa del mio compleanno, quel 30 Aprile. Il Toro si giocava lo scudetto, io scrivevo canzoni. Qualche giorno dopo, in una vetrina del centro apparve il faccione, disegnato in stile fumettistico, di Ian Anderson sulla copertina di un disco giallo. Ian Anderson, i Jethro Tull. Il flauto, la musica classica, le chitarre cattive, il giubbbotto di pelle, la conchiglia sul palco, gli sputi e la voce graffiante. Ma che fa il menestrello? Tira fuori un disco di rock melodico, basato sulla storia di un vecchio motociclista, un rocker dei tempi passati che vince al Quizz serale e si gioca a dadi la sorte volando con la moto e rischiando l'osso del collo. "Troppo vecchio per il rcok and roll, troppo giovane per morire". Io andavo in moto, mio padre era l'appassionato e in montagna salivo su e giù con l'Ossa da trial sui sentieri (ora verrei fucilato ma correre dietro alle marmotte saltando sulle rocce aveva un suo perchè). Suonavo la chitarra, sputavo nel flauto, ed ero diventato vecchio, forse troppo vecchio per il rock e roll, ma certamente troppo giovane per morire.

Il 16 maggio, visto che volevo vivere, come ora, ogni momento al meglio delle mie possibilità, trovai un biglietto per la partita Torino-Cesena che decideva lo scudetto. Ero in Filadelfia (l'unica partita mai vista in quella curva, quella dei cugini) ma andò bene lo stesso.
Fu un pomeriggio incredibile a cui seguì una notte di follia, che se volete un giorno vi racconterò. Nulla di speciale, ma la festa organizzata da mio padre e dai negozi del quartiere Santa Rita ancora si ricorda.
Avevo il mio disco nuovo, uno scudetto da appuntare al petto, la scuola da portare avanti e poesie da scrivere.
Ero troppo giovane per morire e , ancora oggi, nemmeno troppo vecchio per il rock and roll.

Clay Mc Pants