Era il 27 marzo del 1983...
Comincia così una delle favole che ai tifosi granata piace raccontare la sera ai bambini. Il racconto di qualcosa che è realmente accaduto, ma è rimasto nella memoria di ognuno con un particolare diverso, unico.
Una storia che, da sola, può fare diventare tifoso del Toro anche il ragazzino più a rischio (nelle classi di oggi il granata non è certo di moda), ed insegna anche ai grandi quale sia il valore della fede sportiva, del non abbattersi, del non darsi per vinto, del non cedere alla strapotenza del potere, all'arroganza di chi si crede sempre il più forte.

Era il 27 marzo del 1983 e a Torino non era una bella giornata. Era umido e grigio quel giorno, per me, però, rimane nella memoria come un giorno speciale. Avevo ventitrè anni.
Allora le partite si giocavano presto, ma quel giorno era quello del cambio dell'ora, il giorno che non capisci il momento in cui vivi. A pranzo, dall'altra parte di Torino, non so perchè mi venne l'idea di proporre a papà d'andare allo stadio. Anche se lo vedevo già anziano aveva poco più di cinquant'anni ed era forte e generoso.-Andiamo-disse e prendemmo la macchina. Quando, tra il traffico, vidi il trambusto di auto posteggiate e la marea di gente che andava verso lo stadio, pensai che riuscire ad andare in Maratona sarebbe stato difficile. Incurante del prezzo, decisamente più caro, mio padre propose di andare nei Distinti Centrali, cosa che non mi ero mai permesso di fare, visto che per me esisteva solo quell'angolo a mezz'aria, sospeso sul Comunale, sotto la Torre della Maratona e rombante di tamburi e coreografie meravigliose, di bandiere e striscioni esclusivamente di un solo colore.

Trovammo posto in piedi, schiacciati alla paratia delle scale, accanto, tra gli altri, ad alcuni personaggi del centro Italia. Mio papà, bolognese e di natura gioviale disse un paio di battute che bastarono a farci capire che quelli erano gobbi fino al midollo e, come tanti tra loro, supponenti, arroganti, saccenti e servi di quello che, per noi torinesi e granata, rimarrà sempre un potere eccessivo, assoluto e irritante. Il racconto di tutto non può però prescindere dal momento sportivo. Il Torino di Pulici e Graziani, di Claudio Sala e dello scudetto, quello ancor più bello e forte dei cinquanta punti ormai non c'era più. Era diventata una squadra normale, che cercava di tirarsi su con i giovani del vivaio affidati alla chioccia Zaccarelli e che, era destino, aveva chiamato come primo straniero un terzino olandese che si chiamava Van De Korput. E la Juventus era la più forte di tutte, con Platini, Boniek, e i campioni mondiali Paolo Rossi, Zoff e tutti gli altri. 

Il primo tempo e la prima parte della ripresa non li ricordo. O meglio ricordo la tensione oggettiva provata nell'irridente comportamento dei giocatori bianconeri in campo, ormai sul due a zero a mezz'ora dalla fine che facevano il torello ai ragazzi, con la Maratona ormai quasi silenziosa e i tipi accanto a noi sugli spalti che stavano rischiando grosso, srotolando battute ed insulti. Era una brutta giornata, ed in campo, con la maglia granata, c'erano molte riserve, di ragazzini.
No, non c'era più partita.

Non è vero. Nel calcio è successo spesso, oggi poi con le partite infinite ed i cinque cambi può anche essere normale, ma quel  giorno fu speciale. E la partita ricominciò d'incanto. La differenza di valori in campo, improvvisamente non si sentì più. Terraneo fece una parata su Paolo Rossi, che quasi si mise a ridere, come a dire aspettane un'altra. Poi fu tutto velocissimo, come nella radiocronaca di Ameri, che ha fatto morire centinaia di cuori all'ascolto di Noventesimo Minuto.

Dossena segna di testa, sotto la Curva Martona. Zoff è impietrito. 2 a 1 e palla al centro. Bonesso segna di testa.
Pareggio, ed è passato un minuto. Non vi racconto l'esplosione di gioia, di felicità e d'orgoglio. Vi dico che mi giro un attimo ed il gruppo dei vicini, al pareggio, è già sparito. Sono andati via. Meno male perché mi padre s'era già sbottonato le maniche della camicia. La Maratona, il feudo del tifo granata non solo urla e gioisce come poche volte si è vista ma diventa il fulcro del mondo, il buco nero, l'aspirapolvere.
Tutti insieme, veramente tutti insieme, anche dai distinti, anche dalle tribune, respiriamo assieme, attacchiamo ancora, e facciamo quella rovesciata di Torrisi che mette il tre a due alla spalle di Zoff e di tutto il potere.
Dal gol di Dossena sono passati nel tempo pochi minuti, in tre minuti e quaranta secondi, praticamente, si è scritta la storia.

Sono passati quarant'anni. Non vinciamo, noi di questo che si chiama ancora Torino, un derby da un'eternità e soprattutto li perdiamo a raffica. Il lettore, non granata, potrebbe non capire, potrebbe dire che al Torino va bene così, che arrivare decimo con tutte le corazzate milionarie che occupano il calcio italiano è normale, ha una sua logica, che la società e sana e non può pretendere di più, anzi ha l'onore di giocare in serie A da qualche stagione, senza rischiare di tornare in Serie B come qualche anno fa. Lascio al lettore le sue convinzioni. Io ho le mie. 

Quei tre minuti e quaranta secondi dovrebbero essere insegnati nelle scuole, dovrebbero dare la giusta misura di quello che è sport, lotta, agonismo, forza e fortuna, sopratutto orgoglio.
Perchè a metà partita se ti metti a fare il furbo, mi fai il torello tra gli Olè dei tuoi servi, devi aspettarti che qualcosa succeda. 
Ci sono volte che, a dispetto dei soldi, degli arbitri, della logica e della frode, succede.  

Caly Mc Pants