Passo il pomeriggio domenicale, come al solito, in un piccolo paese della provincia torinese. Piove. La moglie impegnata nelle pulizie domenicali e la figlia immersa nello studio dell'incomprensibile matematica liceale. Relegato in stanza accendo la tv, pronto ad addormentarmi, visto che il mio Torello ha giocato la sera prima riuscendo nell'impresa, direi non facile, di resuscitare una Juventus inguardabile. L'amarezza del gol subito, come al solito, nei minuti finali di una partita che si poteva tranquillamente pareggiare, oltre a rovinare la serata ha minato in qualche modo anche la mia domenica, lasciando strascichi mentali e fisici importanti (la cena del sabato non digerita, il sonno agitato dall'immagine ricorrente di Cuadrado che entra in campo, la gola arsa dalle urla irripetibili lanciate all'ottantaseiesimo e soprattutto una certa agitazione dovuta alla paura della vendetta divina dopo i diversi peccati -pensieri, opere e omissioni- compiuti dal sottoscritto nei novanta minuti dell'incontro visto alla tv). Comunque nonostante il derby perso sia diventato una consuetudine abituale con l'attuale dirigenza (tanto da arrivare a pensare male visto che molti gol delle vittorie bianconere contro la squadra di Cairo arrivano puntualmente negli ultimi tre minuti) non riesco, dopo le stracittadine, a tornare a relazionarmi con il calcio per qualche giorno.

Seduto nella stanza, di fronte alla tv, in questo pomeriggio domenicale faccio il consueto zapping senza senso e senza speranze. Improvvisamente mi rendo conto che è il giorno della Parigi Roubaix, la classica corsa che attraversa la campagna francese e  che è famosa per la sua lunghezza e per i passaggi sull'insidioso pavé delle stradine che usano i contadini. Bene, su Rai Sport trovo le prime immagini, fermo lo zapping e vengo ribaltato nella corsa.
Piove sui prati e sul mais non ancora raccolto. Tra la pioggia ed il vento, uomini totalmente infangati, irriconoscibili, stanno pedalando dentro pozzanghere di melma scura. Qualcuno cade, qualcuno rompe la bici, c'è un gruppo davanti, ce ne sono molti a pochi secondi, ma non è la competizione ad attirare la mia curiosità, ed il mio interesse. No. Quello che scorre dentro la tv fa parte, in qualche modo, della mia vita, di tutta la mia vita. Vedo mio padre, sulle strade infangate della Torino del primo dopoguerra, innamorato delle due ruote e della fatica, felice di allenarsi e pedalare tra le sei e le otto del mattino per fare un salto a Superga prima d'andare a lavorare, o passare la domenica a cercare salite sempre più dure e mete più lontane, da raggiungere pedalando. Vedo mio padre che il giorno prima della prima gara da dilettante scivola su una rotaia del tram e si rompe il braccio e si trova davanti al bivio: o corri o lavori, e lavorare era necessario.
Intanto questi ragazzi, come in un film d'altri tempi, continuano a pedalare su quelle pietre maledette, in quei rivoli di fango e di letame, ed hanno magliette inzuppate di melma, e maschere grigie in faccia, e bocche impregnate dalla terra. Davanti resta solo un trentino, Gianni Moscon, e mi sembra di vederlo salire e scendere tra i sentieri e i ruscelli delle sue valli, piene di mele e di vacche, di erba e di letame sparso. Ma le insidie sono dietro ogni angolo e sopro ogni piccolo cubetto di porfido. Mentre da dietro un Belga, un Olandese ed un Italiano arrivano a velocità doppia, il ventisettenne trentino che di nome fa Gianni Moscon, buca improvvisamente una gomma. L'auto al seguito risce depo qualche centinaio di metri a fornirgli una bici nuova ma si capisce subito che qualcosa non va. L'uomo mascherato, la statua di fango che è solo davanti inizia a guardare la bici nuova, come a chiederle di non tradirlo, di fare la brava, di adeguarsi alle terribili condizioni del terreno. No. Lei non capisce, è stata sulla macchina finora, era pronta, ma non prontissima e, su una splendida e perfetta lastra di pietra e fango ad una pedalata più forte delle altre, lascia che la ruota posteriore scivoli via, trascinando a terra il conducente. Non si fa male, Moscon, ma due colpi così in pochi minuti sono troppi. Riprende coraggio, pedala, ma gli altri, gli inseguitori, sono ormai lì, vicini a lui e lo passano. Restano pochi chilometri al traguardo, restano l'italiano, il belga e il terribile olandese. Sporchi, infangati, irriconoscibili, con il fango che il vento secca sulla faccia e sulle gambe. E io sul divano, resto a guardare. 

E penso al fango, sui campi di calcio, al pallone di cuoio pesante. Il fango, nelle giornate di pioggia, al lavoro o durante passeggiate interminabili. Il fango, quella volta che sei caduto con il vestito buono in quella pozzanghera scura, e la mamma che ti ha guardato con gli occhi di fuoco. Passa una vita, davanti a quella tv. Le salite in mountain bike a sputare la bile e trattenere i battiti. Le scivolate in curva, le ginocchia sbucciate, quel braccio appoggiato male ed il polso rotto, con la mano che balla da sola nel dolore lancinante. Una vita, in quelle pedalate davanti alla tv. 

I corridori sono arrivati al Velodromo, fa effetto tutta quella melma, quella sporcizia attaccata alle bici ed ai corpi, su quella pista limpida e splendente, fa effetto e mi vengono le lacrime agli occhi. Non so ancora chi vincerà, importa, ma non troppo. I tre rallentano, si guardano. Sono in bici da ore, non hanno più un muscolo sano. Vibrazioni, cadute, cambi di bici e bevute di terra e di acqua pulita, e tutto quel fango addosso che sta diventando pesante, un macigno, un altro oltre al corpo, da lanciare in volata. Passano velocissimi sul traguardo, superando Moscon che deve ancora fare l'ultimo giro. Vince Sonny Colbrelli, l'italiano, come in uno di quegli antichi documentari sugli eroi. Sembra di vedere Ungaretti recitare i versi dell'Odissea prima dello sceneggiato televisivo, sembra di ascoltare le campane di tutte le chiese del mondo suonare l'inno alla gioia.
Vince Colbrelli, il ciclista con il nome strano, da film americano. Si ferma, alza la bici al cielo, si getta a terra piangendo. Dopo mille secondi posti ha battuto il belga e l'olandese ed ha, finalmente, il suo giorno di gloria. Ho il mio giorno anche io, e l'abbiamo anche noi, sportivi italiani. Sportivi o no, dicevo, che viviamo nel fango le giornate di pioggia e che il sole lo vediamo lontano, ma c'è, ed ogni tanto si ricorda di noi.

Posso piangere ora, ma non so nemmeno il perché. Piange chi ha vinto, chi ha perso, chi è arrivato soffrendo, e chi è caduto in un prato accanto ad un fosso, tra l'erba e la melma. Si vive per piangere, ridendo di noi stessi e della nostra, continua, ricerca di felicità.
Grazie ancora Sonny. Grazie al ciclismo ed alla passione che accende la luce che abbiamo nel cuore.

Clay Mc Pants