Perché?
Buongiorno. Torno con emozione ed umiltà a firmare un articolo con lo pseudonimo che ho usato per anni. Forse alcuni lettori si ricorderanno del giornale satirico “Fegato Granata” diretto da Manlio Collino e che mi vedeva protagonista nella stesura dell’ultima, irriverente pagina. Ma sono passati più di quindici anni. Di quel giornale, venduto allo stadio durante le partite casalinghe, sono rimasti molti ricordi, soprattutto legati al mantello granata ed al cappello a cilindro del goliardico direttore. Il tempo è passato, portandosi dietro tante realtà importanti, e proponendo molti cambiamenti, nella vita di tutti. Molti di questi rivolgimenti hanno coinvolto la mia squadra del cuore, il Torino, ed è proprio di questi che vi voglio parlare.
Nei primi giorni d’agosto del 2005 il Torino AC moriva. Travolta dal fallimento e dalle false fideussioni proposte alla Lega per l’iscrizione al campionato di A, conquistato sul campo, la squadra fu demolita in men che non si dica, con la fuga di tutti i giocatori. Per caso, o fortuna, un gruppo di visionari tifosi decisero di proporre, con l’aiuto di alcune istituzioni cittadine, il famoso Lodo Petrucci. Nacque così la Società sportiva Campo Torino che, per qualche giorno, vide al vertice l’avvocato Marengo, l’industriale Robba e l’angelo del Filadelfia Gianfranco Bellino. Come tutte le illusioni, la favola durò poco. Poteri forti spinsero, anche con una certa insistenza, i cosiddetti lodisti a cedere la squadra, salvata e riportata all’onor del mondo, all’imprenditore alessandrino Urbano Cairo. Già famoso nel mondo della pubblicità e dell’editoria, il rampante industriale, si mise alla guida della società ed iniziò il percorso che, ancor oggi, lo vede ai vertici del Torino FC. Da allora la storia sportiva della squadra è ben caratterizzata, ed è chiaramente accertabile da ogni punto di vista. Quindici, ormai quasi sedici anni di vivacchiamenti in classifiche di A e di B, rischi assurdi e poche, pochissime soddisfazioni per i tifosi, alternati dalla conquista degli scudetti di bilancio e di plusvalenze a volte impressionanti. Nulla da dire o da eccepire. Ognuno con i suoi soldi fa quello che vuole. Il problema che viene sentito in città da moltissimi tifosi, e dallo scrivente in particolare, è la “detorinizzazione” della squadra granata, operazione da sempre portata avanti dalla dirigenza e che ora inizia ad essere compresa anche da chi, fino all’anno scorso ad una minima critica rispondeva: “Ma chi vuoi che venga…forza, compralo tu il Toro”, indicando il presidente come il salvatore unico ed assoluto della patria. Di qui nasce la domanda che è il titolo di questo articolo: Perché? Premetto, per chi non è di Torino, che il rapporto della città con la squadra granata è sempre stato decisamente forte. Vero che è passato moltissimo tempo dalla tragedia di Superga, verissimo che l’ultimo scudetto del Torino AC è stato conquistato nel 1976 (dopo 27 anni dalla morte degli Invincibili), e l’ultimo trofeo vinto è la Coppa Italia del 1993, ma la città è ancora intrisa di quelle emozioni e la gente granata è sempre legata ai ricordi ed all’orgoglio dei valori mostrati, e incarnati, dai protagonisti di quelle che non sempre erano vittorie, ma erano imprese di coraggio e umiltà.
La città, si dirà è divisa in due. No. La Juve è internazionale, o meglio multietnica, multirazziale, multititolata, multi tutto. Vince, ma non è mai Torino a vincere. Se prima, nei momenti d’oro, era la Fiat a trionfare ora è un’azienda che ha sede in Olanda a gestirne le imprese. La squadra bianconera macina da sempre campioni che in città si vedono poco, Ronaldo su tutti. E’ ricca, vincente, potente, tutto quello che non è Torino. Torino è una città che è stata operaia, che viveva i tre turni come l’azienda, che resisteva ai continui sfratti di imprese importanti con l’orgoglio della sua gente tosta, e dei nuovi arrivati, ancora più tosti, chini sulle carcasse delle auto in linea, pronti a passare la domenica pomeriggio sulle spiagge dei torrenti vicini a sentire la radiolina. Stare dalla parte dei più deboli, almeno dei più coraggiosi e tenaci, era normale. Poi c’erano le disgrazie e le gioie, Le vittorie degli Invincibili e dei gemelli del Gol, lo schianto dell’aereo, la morte di Meroni. Tanti tifosi la Juve nel mondo, tanti in città che vivevano di Toro, per il Toro, con il Toro. Ora è diverso. Perché? Chiedevo. Perché il Torino FC è l’unica squadra di Serie A a non avere un centro sportivo? Perché la squadra si allena in un campo glorioso ricostruito in modo discutibile (nemmeno con i soldi della società) in cui non c’è posto per un Museo e che non riesce a diventare la casa che tanto serve? Perché la società affitta un’anonima sede, un ufficio tristissimo, in uno stabile di proprietà di una famosa compagnia di assicurazioni? Perché il presidente, che nell’immagine popolare è un mago dell’informazione e dell’editoria, ha, con freddezza meneghina, eliminato ogni collegamento tra la squadra e le sue bandiere, i suoi eroi, le colonne della squadra del passato e, tranne alcuni casi, è riuscito a rovinare i rapporti con i tifosi? Perché il marchio Torino, il colore granata, è stato così bistrattato in questi anni? Sarebbe stato tutto più facile e bello, forse semplice. Sarebbe stato normale ascoltare il respiro del cuore dei tifosi, le sensazioni delle persone umili, che sono la vera forza del mondo.
Ho scritto un libro, qualche anno fa, che si intitola “I Luoghi del Toro” edito da Yume Libri. Ho cercato, coadiuvato da Libero Robba, un grande e appassionato tifoso, le case, gli alloggi in cui avevano vissuto i Campioni del Grande Torino, ho percorso le strade, visto gli stadi (e trovato i resti di quelli distrutti dal tempo) ed ho conosciuto molti testimoni di quei tempi lontani, oltre tanti, tantissimi giocatori che hanno frequentato la mia attività commerciale. In tutti la fiamma granata era accesa, è ancora accesa. Non si può parlare di nostalgia, di saudade. Il Toro è qualcosa di più, è entrato dentro a chi ha corso con quella maglia, a chi ha vissuto a contatto con quei colori. Non può essere così come ora. Non può essere una squadra senza radici, che naviga a vista, che non getta basi solide, e che si nega alla città.
Conosco molti tifosi granata sparsi per il mondo, il ricordo degli Invincibili è ancora vivo, basterebbe poco per fare tornare a battere il cuore di chi non sente più l’appartenenza, di chi si sente, in qualche modo, tradito. Tradito dalla dirigenza della squadra che si salva dalla B per un pelo con un palo all’ultimo secondo, la stessa dirigenza che allontana il salvatore della baracca, l’allenatore che ha tenuto insieme il gruppo, a causa dei suoi precedenti in maglia granata, che allontana dirigenti scomodi, che si accentra sempre di più.
Nessun legame con il passato, nessuna previsione per il futuro e una realtà presente che non richiama nessun entusiasmo. Perché?