Sono un appassionato di calcio sfegatato. Guardo arrivare le vittorie della mia squadra come Popeye vedeva avvicinarsi la forchetta che gli avrebbe permesso di ingurgitare spinaci, consapevole che ne scaturirà per me linfa vitale, carico di potenza, adrenalina. Proprio per questo non riesco a sentirmi vicino al “bel calcio”, inteso come ideologia e contrapposizione, “must”, come sovrastruttura dalla quale a cascata ne derivano tutti i principi fondamentali.

Forse sarà per una competitività che mi porto dentro sin da piccolo, quando pensi ad arrivare alla vittoria, senza preoccuparti molto del “come”, ma spremendoti per farlo più velocemente possibile. Oppure per un retaggio familiare. Nelle quattro mura dove sono cresciuto la forma sotto la quale si palesavano le cose è sempre valsa assai poco se non accompagnata dai risultati, da raggiungere con ingegno. Insomma il successo, nel corso del tempo, mentre ad altri causava pressioni, noia o frustrazioni, mi ha divertito parecchio, per il modo in cui stimolava la mia “ragione” nel cercare una maniera in cui raggiungerlo: una valeva l’altra, sempre restando nei termini del sano e del lecito, naturalmente.

Sta di fatto che, crescendo, l’estetica l’ho sempre preferita in veste teorica, magari da studiare all’Università, è sempre meno applicata ad un gioco, come lo è il calcio. L’idea, strettamente personale, figlia naturalmente del contesto che più mi appartiene, da cui parto è che un gioco nel momento in cui contempla una vittoria finale, perde immediatamente contatto con la sua definizione, declinandosi inevitabilmente verso la vittoria, la quale come una calamita cattura tutta l’importanza in ballo.

Tornando al discorso principale e partendo da quello, rincorro e ricerco la bellezza nella natura, nella razza umana, negli oggetti, ma mai nel calcio, non mi soddisfa. Ben venga trovarla, ma può fare solo da contorno, il piatto forte sono i tre punti e le Coppe. Potrei, e potreste, definirmi un risultatista: ad un magnifico ed elettrizzante possesso palla dell’80%, alle triangolazioni veloci da videogioco, e alle bollicine dello champagne, preferisco un secco vino rosso di campagna, un sol bicchiere che ti stordisce e ti lascia le pupille rubino, ovvero, uno scialbo e noioso 1 a 0, di quelli che sai che non potranno mai rimontarti per come la squadra si arroccherà in difesa, perché a qualunque ostacolo troverai una soluzione, senza restare fisso sul tuo spartito. 

 

Max Allegri nel ventaglio

 

Non meraviglia, allora, che nel ventaglio dei miei allenatori preferiti non è possibile rintracciare i nomi di Guardiola, Klopp o Bielsa. Li rispetto, sono dei grandi, dei vincenti, ma filosoficamente gli preferisco Mourinho, Simeone e Allegri. Si, Max Allegri, tra gli allenatori più chiacchierati, più osannati, più criticati e divisori d’Italia, mi piace, così come piace a tanti altri. Ma perché?

Innanzitutto per questa stringa presa dal suo libro, che sembra un riassunto di quanto finora ho detto: “Non riesco proprio a spiegarmi perché si sta riducendo il calcio a troppa teoria. Per esempio, sono fermamente convinto che ci siano momenti di una stagione in cui si può accettare di giocar male pur di vincere. Accontentare la gente ricercando l’estetica è sbagliato”.

“Vincere”, in ogni intervista del livornese appare questo verbo come caposaldo della sua intera esistenza, e nelle sue risposte traspare l’intenzione di difendere questo fondamento anche cinicamente se ce ne fosse il bisogno, assumendo addirittura i toni del reazionario contro chi vuole fare del calcio una scienza, un gioco complesso.

Il fine giustifica i mezzi, l’allenatore senza fare la prima donna, deve, per prima cosa, non fare danni, anzi risolvere i problemi. Tutto il resto, passa in secondo piano. 

Chi va in panchina non ha alcun obbligo di professare una filosofia, è pagato per raggiungere obiettivi. Così, proprio come una manager d’azienda, il manager nel calcio trova le soluzioni per arrivare al risultato aziendale.  Mettere De Sciglio centrale, Sturaro in fascia, Mandzukic come esterno d’attacco, giocare male per portare a casa la pelle: vale tutto. E valgono i mezzi che si hanno disposizione, i quali, da bravi alchimisti, vanno amalgamati tra loro per ottenere ciò che si sta cercando.

 

Il modo di vincere

 

Dalle sue idee ne scaturisce naturalmente un particolare modo di vincere e di stare in campo, ovvero nessuno in particolare. Ci sono molti modi di vincere una partita di calcio, così come un calciatore può occupare molte zone diverse nelle due fasi di gioco. 

Ogni dogma è bandito, tutte le possibilità tattiche sono esplorate per trovare il giusto assemblaggio, non c’è una costruzione di gioca fissa da seguire, bensì bisogna mutare al mutare delle circostanze, gestire gli avversari a seconda dei loro punti deboli e i propri punti forti.

E, soprattutto, ascoltare le sensazioni, interpretare i momenti. Il calcio è fatto anche di emozioni, e quel percepito non può restare fuori dal processo decisionale di un allenatore, perché insieme all’istinto è ciò che guida all’inaspettato, ciò che fa saltare il banco.

 

Il tecnico

 

L’allenatore che ne esce da tali presupposti è un figura molto apprezzata, stimata e molto preparata, vincente, che pone un’estrema attenzione ai dettagli e privilegia un’idea di controllo tattico dei vari scenari.

L’Allegri tecnico negli anni ha dato un’impressione di gestione dell’emotività del momento molto elevata, spesso tramandata quasi di riflesso ai singoli in campo, capaci di interpretare al meglio le varie fasi di una partita. È indubbio, infatti, che bisogna attribuire al livornese un’abilità di lettura degli eventi fuori dal comune e superiore a molto suoi simili, che è possibile riscontrare nelle numerose qualificazioni da lui ottenute. Tale predisposizione ad analizzare le gare, a prevederne lo sviluppo, fa si che Max sappia, infatti, perfettamente indirizzare le gare spesso nella direzione voluta, con una sostituzione o un cambio di tattica in corsa.

Per fare ciò, però, non basta essere un anti-dogmatico, bisogna essere dei conoscitori di gioco, degli strateghi, saper ingegnarsi, aver fatto propri dei principi, come possono essere quelli del gioco di posizione e del gegenpressing, padroneggiarli tanto da riuscirli a trasmetterli per poi sminuirli sia mediaticamente che nei confronti dei propri giocatori.

 

L’esaltazione dei singoli

 

Nel sistema di Allegri, infatti, i giocatori sono in primo piano, per esplicito volere del tecnico. L’approccio adottato dal livornese è stato spesso definito bottom-up: ovvero il sistema di gioco è costruito dal basso partendo dallo sviluppo e dall’integrazione delle caratteristiche dei singoli. Lo svolgimento dei compiti in campo così non risulta estremamente codificata, bensì libera e molto legate alle letture individuali.

Per quanto riguarda la costruzione ci si basa molto sul giocato, sul lavoro in allenamento dove bisogna trovare l’amalgama tecnica tra chi va in campo, solo in questo modo è possibile giungere ad un disegno complessivo. Filosoficamente parlando si va dal particolare al generale, quindi ci troviamo difronte ad un calcio induttivo più che deduttivo come può essere quello di Guardiola o Sarri.

 

I principi di gioco

 

Disegno complessivo che poi si traduce in una ricerca di libertà ed ampiezza. Se, infatti, siamo sempre più abituati a vedere squadre che preferiscono manovrare compatte e strette per sviluppare gioco per vie centrali, ricercando l’imbucata, gli undici di Allegri preferiscono dilatarsi su campi grandi, aumentando le distanze tra gli effettivi per aumentare allo stesso tempo quelle tra le maglie avversarie, invece che attirarle in zona palla per raggiungere il medesimo obiettivo.

Ciò si riflette naturalmente sulla disposizione in campo dei calciatori, come esempio possiamo prendere il comportamento delle mezzali. Nel sistema tattico di Allegri i due centrocampisti esterni non hanno il compito ossessivo di andare in verticale per superare la pressione avversaria, ma si allargano quasi sempre verso le linee esterne, per svuotare il centro, e risalire il campo, allargandolo, muovendosi in fascia. Tali movimenti, conseguentemente, incidono sulle modalità di rifinitura del gioco, dove i “cambi di gioco” assumono una discreta importanza, proprio per sfruttare quell’ampiezza ricercata.

Anche la fase difensiva risulta assai influenzata dai principi di annullamento dei punti di forza dell’avversario e dell’esaltazione libera della qualità dei propri giocatori. Il pressing è utilizzato in maniera mirata, con saggezza: non sempre, non contro tutti gli avversari e non in qualsiasi momento del match. Gli spazi vanno controllati, proprio come in fase offensiva, in questo caso in relazione alla posizione degli attaccanti: ciò comporta una sorta di marcatura a uomo a zona, un’ibrido. E, soprattuto, non c’è nessuna vergogna, in alcuni momenti più delicati, a difendersi bassi, o cambiare struttura in corsa, magari passando a tre per difendere il vantaggio.

 

La ragione e la realtà

 

Il vantaggio, che è in definitiva ciò che conta, per Max e per chi scrive, perché avvicina alla vittoria. Un vantaggio che può essere tratto, come ci ricordava Marco Aurelio, solo da chi è dotato di ragione e può rendere ogni ostacolo una materia del suo lavoro.

Un lavoro che ci ha spesso mostrato la rarità di imbattersi nel bel calcio quando in ballo c’è un titolo che conta. Quando la partita conta davvero, si bada al sodo. Lasciamo spazio anche al bel gioco, ma non può essere una religione, non è la via per la luce, quella ci è data dall’ingegno, dal sapere sfruttare ciò che abbiamo tra le mani, senza preconcetti. Contano i gol fatti e i gol subiti, i tre punti e i trofei sollevati. Molto semplice, come dice Allegri, ed è questo chi ci piace. Molto semplice come dice Allegri, farla difficile è solo un plus, una bega da lasciare a chi ha voglia di assumersela, di certo non necessaria.