Wang Shu, celebre architetto ed accademico, nonché primo cinese a vincere il Premio Pritzker (il più importante riconoscimento al mondo di architettura), parlando della sua filosofia estrapolò una massima: perdere il passato significa perdere il futuro.
In sostanza, come ci ripetiamo spesso, analizzare il passato non è altro che fare luce sul futuro, perché significa andare alla riscoperta di tutte quelle dinamiche che hanno influenzato ciò che è stato e che, inevitabilmente, si ripeterà. Stiamo parlando della storia dell’umanità (ciclica come la moda) ma possiamo proiettare questi concetti anche sullo sport e in particolare sul calcio. Perché il calcio esattamente come la storia del mondo è fatto di uomini, e attinge continuamente da quegli uomini che del calcio stesso hanno fatto la storia.

Per dimostrare questo assioma, allora, come si fosse il commissario tecnico del tempo, vale la pena selezionare un undici composto dai nomi che hanno reso il pallone ciò che conosciamo. Una squadra fatta dei più grandi calciatori che questo sport abbia mai visto (unici nel loro genere) e che (anche se molti di loro oggi non calcano più il rettangolo verde) continuano ad essere presenti nella loro eredità, nei loro eredi e nell’immaginario collettivo.

Gianluigi Buffon (PT)
Lev Ivanovič Jašin, Gordon Banks, Dino Zoff. Avremmo potuto scegliere l’estremo difensore dei nostri pali con un nome a caso tra i tre menzionati, non volevamo andare troppo indietro nel tempo (avremo occasione di farlo) e abbiamo voluto premiare una leggenda ancora viva, che continua a scrivere il fantastico libro della sua carriera.
È proprio la carriera di Gigi Buffon, che rende Gigi Buffon unico nel suo genere. Quando sei stato il numero uno dagli inizi del tuo percorso e alla soglia dei trent’anni vivi un momento difficile trovando comunque la forza di superarlo, e rimanere vincente, allora diventi immortale. Pensate a Roger Federer, Valentino Rossi, Air Jordan, la pasta è quella lì ed e quella che ti permette, grazie ad una intelligenza ed una consapevolezza di sé al di fuori del comune, di sfruttare ogni millimetro delle tue abilità e di restare competitivo.
Inoltre, dei grandi della storia il portiere bianconero non ha mai avuto la forza esplosiva, ma una forza mentale che gli ha permesso di superare questo difetto esasperando il proprio senso naturale della posizione: questo vuol dire essere psicologicamente preparato all’anticipo mentale e motorio. Quando un numero uno compie un miracolo spesso è perché è posizionato male. Gigi ne ha potuti compiere pochi per il suo piazzamento sempre impeccabile e alle scelte, come quella di rimanere sempre in piedi. 
Ci sarà un motivo se oggi a 42 anni riesce ancora ad essere decisivo quando schierato (come in finale di Coppa Italia) e se ogni giovane talento passa inevitabilmente per il paragone con lui. Chiunque c’è ora, chiunque verrà, per scalzarlo dal podio dovrà mantenersi sui massimi livelli per circa vent’anni: non un gioco da ragazzi.

Carlos Alberto (TD)
Se qualcuno dovesse chiedervi la nazionalità del terzino dei vostri sogni, inevitabilmente vi balenerebbe in mente un paese: il Brasile. Abbiamo gli occhi e i cuori pieni delle giocate, dei trionfi, della spinta di gente come Cafu, Dani Alves, Maicon, Marcelo, Roberto Carlos. Eppure, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’eredità lasciata da Carlos Alberto, uno dei più grandi simboli della storia Seleçao: mitico capitano che alzò al cielo la terza Coppa Rimet del Brasile nel 1970.
Carlos Alberto in una nazionale piena zeppa di individualità esagerate (era il Brasile di Pelé, forse il migliore di ogni epoca) era il padrone incontrastato della fascia destra. Il suo dominio era elegante e mai sopra le righe, perché naturale quanto la sua tecnica, la sua velocità e il suo tiro. Difendeva perché era il suo compito, poi si spingeva in avanti e segnava tanto: circa 64 furono le reti messe a segno durante la sua carriera. Uno stile che ha fatto scuola e che segna ancora le generazioni a venire.
Se volete un’immagine chiara di lui basta guardare il gol del 4 a 1 segnato contro l’Italia proprio nel ’70. Assist di O’Rey e palla colpita di mezzo collo in corsa.

Franz Beckenbauer e Franco Baresi (DC - DC)
Nel calcio moderno ci sono difensori che sono abili con i piedi e discreti in marcatura, poi ci sono quelli discreti con i piedi e abili, invece, in marcatura. La distinzione è spesso tra marcatore e regista di difesa, con i secondi che negli ultimi anni hanno avuto il sopravvento gettando un’ombra sul futuro del ruolo. Troppi ragazzi provenienti dai settori giovanili sanno addomesticare la palla ma non difendere, ed è quello che dovrebbero fare meglio.
Bene i due “Franco” in maniera diversa seppero fare entrambe le cose alla perfezione.
Quando vediamo un terzo di difesa o uno dei due centrali che si assume il ruolo di prima fonte di gioco, dobbiamo essere consci che la massima espressione di quanto stiamo osservando è stata raggiunta con Beckenbauer. Franz già da mediano raggiunse livelli altissimi nel calcio internazionale, poi Schoen lo mise alle spalle di tutti (da libero) per togliergli l’assillo della marcatura e dargli la possibilità di trovare spazio per le sue incursioni: raggiunse la perfezione. Aveva a bagaglio praticamente tutto: tecnica, passaggio corto e lungo (con una predilezione per il tocco d’esterno), intervento pulito, eleganza, coordinazione. In più, sembrava non sudare e non conoscere la fatica.
L’altro Franco, invece, quello italiano è stato l’ultimo vero rappresentante del libero totale, insieme a Gaetano Scirea (che merita una menzione e potrebbe essere anche al posto del milanista). Gianni Brera per descrivere Baresi usò l’espressione di virile bellezza gladiatoria. Si, perché, nonostante fosse il primo regista in fase di possesso, ciò che gli conferiva un’aura di onnipotenza era il contrasto. Franco Baresi era un marcatore instancabile, ferreo, furioso. Ogni suo intervento, allo stesso tempo, rendeva più sicuri i compagni e spaventava gli avversari, che spesso finivano per sbagliare le giocate semplicemente per paura di essere bullizzati (possiamo rintracciare questa caratteristica in Sergio Ramos).

Roberto Carlos (TS)
Non si scappa, se si tratta di esterni di difesa, devono aver indossato una maglia verdeoro. Roberto Carlos, o meglio “el hombre bala”, l’uomo proiettile, è entrato nell’immaginario collettivo e non ci uscirà mai più per un tiro che sfidava ogni legge della fisica e per la sua velocità.
Una velocità esplosiva che traeva dai suoi muscoli d’acciaio: durante i Mondiali del 2002, le sue cosce avevano un diametro di 61 centimetri. 61 centimetri di potenza che lo hanno reso iconico e riconoscibile, capace del banana shot (punizione calciata per la prima volta in un’amichevole contro la Francia nel 1997): rincorsa lunghissima, botta da paura e sfera che girava, appunto, a banana ingannando i portieri convinti che sarebbe uscita, tanto che la traiettoria sembrava essere andata fuori portata.
Tra i gesti che hanno segnati gli anni ’90 non può che esserci questo. Inoltre, era un ottimo difensore e difendeva molto bene in avanti non appena perso il pallone, nel Real dei Galacticos risultava fondamentale.

Cruijff (CC)
Schierare Cruijff mezzala può sembrare un’eresia, non lo è. Perché stiamo parlando non solo del giocatore che ha influenzato una generazione di futuri campioni, né solamente la sua. No, Johan è stato il calciatore più importante del 20esimo secolo e forse della storia del calcio, per, quello che ha fatto in campo ma, soprattutto, per come ha cambiato nettamente il modo di pensare il calcio.
L’olandese (naturalmente grazie al mentore Michels) è stato il primo a voler dominare non il pallone ma lo spazio in campo.
Dominando lo spazio potevi arrivare alla vittoria, quella era un rivoluzione: perché il calcio era ancora un gioco prettamente fisico e individuale. La dimensione spaziale potevi dominarla solo in maniera collettiva e non correndo di più ma correndo meglio: era il calcio totale. Tutte le filosofie di gioco che si basano sul possesso della palla hanno radici in ciò che è stato fatto in quegli anni dal Johan calciatore e allenatore.
La stessa storia del Barcellona non avrebbe lo stesso sapore. Non sarebbe arrivata la prima Coppa Campioni della storia blaugrana. Non sarebbe nato il mito di Guardiola, scelto da Johan come suo interprete in campo, per perpetuare la concezione di ricerca della profondità ossessiva, che poi Pep avrebbe fatto sua per tramandarla, a sua volta, a Xavi. Xavi che tornerà a Barcellona, probabilmente, da allenatore e potrà fare lo stesso magari scegliendo come scudiere il giovane Riqui Puig, dando seguito ad una storia favolosa.

Pirlo (CDC)
Partiamo da un presupposto Pirlo è nato baciato dagli dei. Non abbiamo mai visto uno con la stesso tocco di palla abbinato ad una velocità e precisione di pensiero simile.
Poi, aggiungiamoci, che ha fatto il dieci giocando da mediano. L’ex Milan e Juve è nato trequartista, nell’epoca che vedeva scomparire quel ruolo, dunque gli hanno arretrato il raggio d’azione di venti metri. E lui senza batter ciglio al metodo ha aggiunto l’imprevedibilità e non ha rinunciato a correre i rischi. Perché se ad un giocatore che gioca avanti alla difesa gli si chiede di non perdere la palla, Andrea Pirlo ha rischiato di farlo ogni minuto che ha trascorso in campo trattenendo la palla più tempo possibile per: attirare la pressione avversaria, trovare lo spazio giusto per servire i compagni.
Questo lo ha reso qualcosa che non c’era mai stato prima e che probabilmente mai più ci sarà: un ibrido, un trequartista difensivo. (Non provate a paragonarlo a Xavi, un giocatore molto più orizzontale rispetto all'italiano, e nemmeno Xabi eccessivamente geometrico e poco verticale, ma simile in fase di non possesso).

Maradona (CC/COC)
Semplicemente il più grande della storia del calcio. Se il 10 è il numero più affascinante, il suo più grande rappresentante è stato Diego Armando Maradona, un mix di talento smisurato e furbizia, di creatività e sregolatezza. 
Spiegare El Pibe sotto l’aspetto tecnico è praticamente impossibile, perché lui con la palla poteva tutto. Se il Dio del calcio si fosse fatto uomo sicuramente avrebbe avuto le sembianze di Diego, una figura così gigante che a trent’anni dall’ultima sua apparizione su un campo da calcio lo si porta ancora sempre come metro di paragone (chiedere a Leo Messi).
Come se un talento smisurato, poi, non bastasse, il dieci per eccellenza ha avuto più di tutti gli altri una simbiosi con chi lo amato che non ha eguali e che resiste ancora. Nessuno ha legato con uno stadio, con un popolo, con un’ideologia, come ha fatto lui. Nessuno. 
Maradona è stato per Napoli e per l’Argentina un messia, un’ epifania. L’anima di una città e di una nazione che all’improvviso si è fatta carne. Solo un’innocente blasfemia può spiegare ciò che è stato. Popoli allo sbando, bisognosi di riscatto, che iniziano ad amare chi è misticamente portatore di rivoluzione, leadership e bellezza.

George Best (AS)
Dal numero 10 al numero 7 per eccellenza. Il Manchester United non è alla ribalta da troppi anni, eppure resta tra i primi club per riconoscibilità e autorevolezza del brand. Perché? Per una maglia rossa con quel numero stampato sulle spalle, che è stato indossato da Cristiano Ronaldo, David Beckham, Michael Owen, Eric Cantona ma, soprattuto, da George Best.
Se Becham è stato il giocatore rappresentativo degli anni 2000 (Sognando Beckham è indicativo in tal senso), quando pensiamo agli anni 70’ dobbiamo fare assolutamente riferimento a Best: l’uomo, il calcio, l’ideale, del suo tempo.
Parliamo di un calcio fatto di campi dissestati, di palloni pesanti, di difensori liberi di intervenire con cattiveria per fermare fisicamente gli avversari, di mancanza di gioco collettivo e dunque impossibilità di trovare gli spazi grazie ai movimenti dei compagni. Ecco in quel calcio Best si è calato con un fisico esile e senza paura. Ha portato la fantasia e la conduzione del pallone in un habitat non congeniale e ha vinto, anzi ha gettato le condizioni d’esistenza per vincere in quell’epoca. Ha fatto semplicemente ciò che andava fatto per vincere all’epoca. Così facendo ha segnato il calcio ed è andato oltre squarciandolo, dimostrando che il talento poteva superare di gran lunga l’intensità e l’atletismo.

Mario Kempes (ATT)
Edinson Cavani, Gonzalo Higuain, Radamel “El Tigre” Falcao, Gabriel Omar Batistuta, Hernan Crespo, attaccanti magnifici con unico massimo comune denominatore: Mario Kempes. L’idea di attaccante moderno che ti spacca la partita viene da quest’argentino che poteva risolverti la partita in qualsiasi modo e in qualsiasi momento. Mario Kempes è tra i giocatori la cui importanza è tra le più sottovalutate della storia del calcio, per un motivo preciso: la sua ascesa è combaciata con il ritiro di Cruijff e l’entrata in scena di Maradona.
Eppure restituiva un senso di completezza che ti donava pace solo nel guardarlo, nel guardare la prima prima punta fluida, l’attaccante che partecipa alla manovra, quello di raccordo, che fa giocare bene la squadra e che segna a raffica partendo largo. Aveva un’energia inarrestabile che lo rendeva imprendibile, riceveva nei mezzi spazi, orientava la palla con il controllo e lo ritrovavi, dopo una corsa da cavallo, direttamente in porta.
Ci sarà un motivo se un disegnatore giapponese, tale Yoichi Takahashi, guardandolo giocare ai Mondiale del ’78, ebbe l’idea di creare un nuovo manga sul calcio: Captain Tsubasa, ovvero Holly e Benji. Un cartone animato che non è altro che un inno a Mario Kempes: tutti i protagonisti hanno i capelli lunghi e neri, corrono per giorni e concludono con tiri precisi e talmente potenti da far diventare la sfera ovale. 

Cristiano (AS)
L’ultimo nome è il più contemporaneo che potevamo fare: è Cristiano Ronaldo, il Re Mida dei nostri giorni, il modello di riferimento di migliaia di ragazzini che sognano di diventare come lui.
Cristiano è unico nella storia, perché nella storia si è ritagliato un posto tra i primi senza averne diritto. Cosi si spiega la sua presenza su un podio a cinque, dove gli altri quattro sono Maradona, Pelé, Cruijff e Messi: giocatori fenomenali partoriti dalla natura. Il portoghese non ha avuto gli stessi doni e gli stessi privilegi. Ha avuto una tecnica discreta, ma a lui non è bastata. Poteva essere un Nani qualunque (con tutto il rispetto), ma ha scelto di essere definitivo, unico, di ergersi su un piano sconosciuto anche i migliori, l’ha fatto con il lavoro.
Resterà un esempio per sempre. La determinazione non si compra al supermercato. Chiunque vorrà arrivare tra i primi farà bene a guardare lui per capire in che modo farlo.

P.S. Tanti nomi restano fuori dalla nostra selezione, avrebbero meritato di esserci, ma il calcio, come la vita, è fatta di scelte e opinioni soggettive.