“Siamo uomini o caporali?” diceva Totò. Uomini, naturalmente. Dolcemente complicati, parafrasando Mia Martini, e prendendo in prestito le sue parole, ora che la parità di genere ci permette di dichiararci tutti uguali.
Tutti uguali, ma diversi allo stesso tempo, di una differenza che ci rende più umani e più belli. Meglio precisare di questi tempi, perché si corre sempre il rischio di finire nel mirino degli attivisti. Per cosa? Per razzismo. Si, perché se ti danno del razzista una sola volta è finita. Dopo qualsiasi cosa dirai sarà etichettata come razzista. Che so, “Michael Jordan è stato il più grande sportivo di colore della storia”. Razzista! Ma perché? Perché dovevi dire il più grande sportivo della storia e basta, senza precisare. Ma il più grande di tutti per me è Joe di Maggio, MJ viene dopo. Razzista! Vabbè, lasciamo perdere.

Stiamo perdendo il filo del discorso. Quale discorso, non hai nemmeno cominciato. Sì, è vero, questa società mi ammazza, altro che giungla, altro che gocciole. Che stavo dicendo. Ah, si, che siamo tutti uguali. Non proprio tutti, però sotto alcuni aspetti. Facci un esempio. Vediamo… ci sono. Ognuno di noi, che sia basso o alto, calvo o capellone, etero o vegano (ma che c’entra? e lasciami fare senza interrompere). Insomma chiunque ha delle cose che gli vanno a genio e altre che proprio gli stanno sul c., occhio a non dire parolacce!, quali parolacce, sul collo. Alcune cose ci stanno sul collo, ma non come una sciarpa, no quella è calda (oddio di questi tempi manca a pensarci al caldo), più come una lavatrice. Una lavatrice sul groppone, roba che: è levati, ma chi ti credi di essere?

Ecco il punto: chi ti credi di essere? Siate sinceri quante volte l’avete pensato. Ciccio ma quanto credi di valere, manco avessi scoperto un neutrone, trovato un nuovo pianeta, inventato la colla per parrucchini o il cucchiaio, non quello per mangiare, più quello di Totti. Ma tutto questo col calcio che c’entra? C’entra, c’entra. Oè se c’entra direbbe un Ezio Greggio di Yuppiana memoria. Ma cosa? Questo: nel mondo del calcio ci sono troppi totem, non intesi come spiriti protettivi e nemmeno alla maniera di Carl Gustav Jung, dunque come una fantasmagoria di archetipi, che a stento si possono riconoscere come fatti psichici. Totem simili a simulacri, oggetti di culto (non mi veniva l’espressione). 

Non è che io sia contro gli oggetti di culto, lo sono solo in parte. Non lo sono quando tali oggetti diventano di culto per una scelta consapevole o inconsapevole di una massa. È dell’alba dei tempi che per un motivo o per un altro un gruppo di persone sceglie di venerare qualcuno o qualcosa. Questo lo posso pure accettare, perché porta in se tutta una serie di valori: il libero arbitrio, la libertà di espressione, di fede, di opinione. Insomma ognuno fa come c., non dire parolacce!, se solo mi facessi finire di parlare. Ognuno fa come cavolo gli pare. Certo come totem, a suo tempo, fu scelto pure Savonarola, non uno stinco di Santo, però comunque uno stinco, magari di maiale.

Quello che voglio dire è che fin quando qualcuno per un motivo qualsiasi dà valore a una cosa o a un uomo, è accettabile. Ciò che non è accettabile, ma, più che altro, è ridicolo, patetico e inverosimile, è quando qualcuno si erge ad oggetto di culto senza che nessuno gliel’abbia chiesto, e/o che nessuno lo riconosca come tale. Ritorniamo un po’ alle canzoni, quelle dei Pinguini Tattici Nucleari o di Cremonini, sapete, del tipo che siamo in un mondo di John e pochi Ringo Starr, in un mondo di numeri dieci, supereroi, dove i Robin sono derisi.

Ma quale mondo? Ancora! Tra i tanti mondi dell’universo conosciuto, quello del calcio. Avete presente che sulla bocca degli stolti, cosi come su quella dei cinesi, il riso abbonda? Bene. Se l’universo del pallone fosse un calderone, il coperchio non potrebbe tenere, verrebbero fuori i presuntuosi appena l’acqua comincerebbe a bollire. Dio, quanti presuntuosi. Su si contano sulle punta delle dita, potresti dirmi. No, le dita sono dieci, loro sono molti di più. Quindici? No. Diciassette? Fuochino? Ma che fuochino? Siamo solo due unità più distanti, poi porta sfortuna. Allora cento? Si. Forse.

I primi sono i calciatori, i numeri primi che non hanno niente a che fare con la solitudine. I numeri uno, o quelli che credono di essere i numeri uno ma non lo sono “manco pe’ niente” direbbero a Roma. E facci un’esempio! Così, su due piedi: Cassano e Balotelli. Sei obsoleto! Si obsoleto, ma sono i primi che mi sono venuti in mente, tutti gli altri verranno in mente a voi leggendo queste righe. Stiamo parlando di tutti quei giocatori che sono stati baciati dal Dio del calcio, che sanno toccare il pallone come Roger tocca la racchetta. E ma il talento mica basta. In “Match Point” di Woody Allen c’è una frase che mi fa impazzire: “disse è meglio avere fortuna che avere talento”. Si il talento, il talento può essere più croce che delizia. Il talento può essere una condanna perché è come il tartufo. Metti un tartufo nel piatto e proponilo da mangiare, te lo buttano in faccia. Il tartufo? No, il piatto. Il tartufo è divino ma ha bisogno della pasta, del formaggio, del pane, della carne, insomma da solo stona come Achille Lauro a Sanremo privato dell’autotune.

Ecco, il talento da solo stona. Se non c’è fortuna, se non c’è impegno, se non c’è la fatica e la professionalità, il talento è come olio, non su tela, ma su pavimento: scivoloso. Si corre il rischio di cadere. Quanti ne abbiamo visti di calciatori con un po’ di talento che solo per avercelo si credevano Jesuschrist superstar? Un’infinità. Dei scesi in terra. Ma dei cosa? Se non vinci, se le statistiche non sono dalla tua parte, se le masse non muoiono per te, sai cosa sei? Niente, ecco cosa sei. Chiacchiere e distintivo, e, soprattutto, sei insopportabile, altro che numero uno. Il numero uno è Messi. Perché? Perché ha sei palloni d’oro. Il numero uno è Ronaldo. Perché? Perché fa più gol di tutti e ha vinto cinque Champions League. Il numero uno oggi in Italia è Immobile. Perché? Perché tra poco vince la scarpa d’oro e raggiunge il record di Higuain. Tu invece? Tu calciatore che ti senti il numero uno, cos’hai? I follower? Il piede destro? La simpatia? Ah, si il talento. Mettitelo nel portafoglio insieme ai vecchi biglietti della metro già vidimati, ha lo stesso valore. Impegnati, fai parlare i numeri poi ci bussi.

Ma non ci sono mica solo i calciatori. Gli allenatori, si sentono tutti Guardiola per aver vinto una Coppa del Nonno al bar di quartiere, o per aver meravigliato il pubblico per tre (tre!) partite di seguito con il calcio Champagne, anche se poi si è rivelato una Tassoni. Gli allenatori “io so tutto”, “è la squadra che deve adattarsi alle mie idee”. Ma chi sei Socrate. “Io capisco di calcio più di tutti voi messi insieme”, forse parlano della vitamina D, il valore nutrizionale principe del Pecorino. Per forza. Perché poi i dati ci dicono (questi sono infami come la morte), a vincere sono sempre gli stessi. E, per quanto ne si dice, Boniperti aveva il calice della verità: vincere è l’unica cosa che conta. Se vinci sei il numero uno, altrimenti non sei nessuno. E non venitemi a dire che l’importante è partecipare, partecipare a cosa? Quando giocate all’enalotto siete felici di aver buttato due euro nel cesso, oppure avreste voluto fare sei. Ah, ecco. Siate sinceri.

Ne abbiamo pure per i giornalisti, per gli opinionisti, per gli commenti tecnici e i blogger. Scrivono o pronunciano due parole che suonano bene e apriti cielo, si sentono Beethoven. Forse il cane. Facci un esempio! O siete forti, roba che vi dico che sono napoletano mi rispondente: e facci una pizza!

Eccola. Anzi, eccolo. Adani, ha tenuto un bel teatrino con Allegri, facendo la voce grossa. Ha detto “la riprende Vecino” e boom, si è creduto il vate, il maestro, l’insegnante, il sommo conoscitore del futebol, roba che Dalai Lama scansati. Ma sul serio? Adesso, ogni volta che parla deve spararla grande, edulcorare, sorprendere. Fagli un nome e lui se ne esce con una massima o un riferimento al calcio sudamericano, il vero calcio. Ma per favore. Mostragli un difensore che sbaglia e lui sa perché ha sbagliato, come, in che misura e cosa avrebbe dovuto fare. Caro, ma tu lo sapevi in campo? A vedere la tua carriera potemmo dubitarne. Scendi dal piedistallo. Vuoi un numero uno: Federico Buffa. Ha una conoscenza infinita, e delle abilità di storytelling riconosciute dall’Italia intera. Se ci fosse un Alberto Angela dello sport sarebbe lui.

Ah, lasciatemi chiudere con un pensiero legato a questa community. Guardate lì. Dove? Lì. C’è un presuntuoso. Facci il nome! No, non ve lo faccio, ve ne dovete accorgere da soli. È facile come cercare la paglia in un pagliaio.

La mia avvelenata, per dirla alla Guccini, finisce qua. Non ho rispettato il mio stile, si è vero, ma i grandi sanno come adattarsi al mutare delle circostanze.
Quindi sono un grande? No, sarei un presuntuoso se lo dicessi e dovrei, a mia volta, starmi sul groppone. Io i grandi li guardo per emularli e imparare qualcosa. Ecco chi sono i numeri uno, fonte di ispirazione.
Chi può dire di esserlo?