Nonostante una stagione “difficile”, sia dal punto di vista sportivo che umano e ambientale (data l’emergenza COVID), la Juve è comunque riuscita a migliorare i suoi record e a restare padrona della Serie A, conquistando il nono scudetto consecutivo, il primo in carriera per Sarri.

Come dice spesso Paratici, probabilmente, non avremo la cifra di quanto i bianconeri stanno facendo fino a quando la striscia terminerà e ci ritroveremo davanti ad un albo d’oro monotematico e monocromatico. Un dominio così esteso e duraturo non si era mai visto prima nei massimi campionati d’Europa e non è detto che lo rivedremo in futuro, perché frutto di un’armonia perfetta tra gli ingredienti per la vittoria: presenza della società, profondità dell’organico, gestione equilibrata del player trading (per mantenere in salute bilancio e competitività), rinnovamento continuo del progetto.
La domanda principale, però, è: cosa ci ha detto di nuovo il nono scudetto di fila della Juve? (sui bianconeri e sulla Serie A del futuro)

Ci ha fatto conoscere meglio Allegri e Sarri
Allegri aveva ragione
Innanzitutto, abbiamo avuto l’opportunità di vedere gli esponenti maestri delle due massime filosofie calcistiche opposte succedersi. Il risultatista Max ha lasciato spazio all’esteta Maurizio, non senza polemiche e ragioni.
Il livornese andava su tutte le furie quando i più celebri commentatori sportivi gli chiedevano un calcio meno votato cinicamente al successo e più spettacolare, data la qualità di cui poteva usufruire. La sua visione era differente, la Juventus era una squadra fatta di singoli che non avrebbero ben sposato un modello di gioco associativo e collettivo, dunque, almeno in fase offensiva, meglio vivere di rendita sulle individualità.
Inoltre, e arriviamo subito a uno dei principali motivi del divorzio tra Allegri e i bianconeri, Max riteneva che troppi personaggi all’interno della rosa o non fossero adatti o avessero dato tutto alla causa, se si voleva un calcio più “europeo”, si necessitava di una rivoluzione tecnica. Ne arrivò una solo ideologica ma non sostanziale.
In effetti, a più di un anno di distanza, non è difficile rintracciare le ragioni del tecnico dei cinque scudetti: lo spessore di molte individualità ha creato più di qualche grattacapo al suo successore nell’applicazione di principi di gioco collettivi, e, in secundis, che sia per età o per mancanza di stimoli in molti si sono dimostrati inadeguati ad alti livelli di intensità e di competizione (vedi Rugani, Pjanic, Matuidi, Khedira).

La metamorfosi di Sarri
Le verità di Allegri, e le sue ragioni, non sono state altro che le condizioni che hanno portato alla metamorfosi di Maurizio Sarri
, che dopo una stagione a Torino ci restituisce l’immagine di un uomo più maturo, intelligente e, soprattutto meno dogmatico di quanto sembrasse.
L’allenatore di Figline, infatti, ha subito abbandonato l’idea di rendere la Juve a sua immagine e somiglianza, o a immagine e somiglianza del suo lavoro più bello: il Napoli. Dall’inizio non c’erano i presupposti. Venuta a mancare l’innovazione della rosa richiesta dal suo predecessore, bisognava abbracciare una sfida diversa: rendere i suoi principi di gioco assimilabili con chi ne sembrava incompatibile e prendere tempo.
Insomma arrivare ad un compromesso, adattarsi reciprocamente, fino a quando non si creassero le condizioni per instaurare la sua politica. Situazione riassunta da una battuta d’inizio stagione in conferenza: “per 70 metri di campo pretendo di vedere la mia impostazione, ma negli ultimi 30 metri voglio vedere l’interpretazione dei giocatori».

Cambiare per guadagnare tempo
Il processo di adattamento ai nuovi principi difensivi è risultato decisamente troppo lento e impacciato, ancora oggi i bianconeri gestiscono i tempi di accorciamento, pressing e distanze, in maniera troppo incostante, e mostrano passività e poca reattività nei momenti in cui dovrebbero esaltare la zona, come sui piazzati.
Inoltre, peccano spesso di insolenza, sia in fase di ripiego o di primo intercetto. Ma anche in fase di possesso, quando la manovra risulta completamente sterile con troppi giocatori che vogliono la palla sui piedi, invece che muoversi tra le linee e facendo muovere il pallone velocemente. Senza tirarla per le lunghe, le difficoltà incontrate durante il percorso sono state infinite e restano alcune ancora irrisolte. Ciò nonostante si è vinto comunque il minimo indispensabile.

L’impressione è che Sarri abbia fatto di necessità virtù e, intuendo che la sovrapposizione dei suoi valori a quelli dell’ambiente non fosse applicabile in termini brevi, si sia calato in una metamorfosi che da idealista lo ha modellato in un gestore di uomini, di motivazioni e di pressioni, guadagnandosi così il primo scudetto della sua carriera e il tempo, per provare a portare a termine la sua missione principale, magari anche con l’arrivo di interpreti diversi.

Ci ha detto che la società bianconera è umana
Come dicevamo in precedenza, tra i principali fattori dell’epopea bianconera in questo ultimo decennio c’è la forza e la presenza del gruppo dirigenziale, capitanato da Andrea Agnelli insediatosi nel 2010 e che all’apparenza sembra non sbagliare un colpo.
Infatti, dopo le due stagioni disastrose, segnate dai due settimi posti consecutivi, la Juve non ha fallito più né in campo né fuori. Oltre i successi racimolati in Italia, le due finali di Champions, e i riconoscimenti sportivi, sono arrivati quelli finanziari ed economici.
I bianconeri sono ad oggi tra i brand sportivi più spendibili al mondo (l’azienda italiana più seguita su Instagram) grazie ad operazioni come quella Ronaldo, contano un fatturato da capogiro (459,7 milioni), tanto da entrare per Deloitte nella Top-10 dei club mondiali, e siglano accordi di sponsor senza precedenti, come quello con Adidas fino al 2027 pari a 408 milioni di euro.

Però, sembrano aver accusato la partenza di Marotta, almeno in termini di responsabilità, con Fabio Paratici che ha dovuto assumersi il peso di tutte le decisioni sportive, finendo inevitabilmente per perdere lucidità. La squadra consegnata a Sarri ne è la prova massima, risultando largamente inadatta ai principi del tecnico prescelto. Così come sono arrivate decisioni di mercato inappuntabili dalla prospettiva del bilancio ma discutibili da quella del campo. Ne sono un esempio gli arrivi di Danilo, Ramsey, Rabiot, la cessione di Can, e quella fortunatamente non andata in porto di Dybala, che solo una stagione fa era alla mercé del miglior offerente.

I singoli del futuro: De Ligt, Bentancur, Dybala
Quando parliamo di singoli trainanti verso i successi della Juve non possiamo far riferimento al singolo per eccezione: Cristiano Ronaldo.
Cristiano Ronaldo è sempre Cristiano Ronaldo
Il portoghese, più che mai, questa stagione è stato difficile da sostenere tatticamente. Risulta evidentemente impossibile coinvolgerlo in un gioco corale come quello di Sarri e sicuramente tante difficolta tattiche incontrate portano il suo nome. Eppure il 7 ha sopperito a questo disagio causato trascinando praticamente da solo l’attacco di una squadra ancora incompleta, e poco produttiva, mettendo a referto il 42% delle reti segnate dai suoi e sorprendendoci per una continuità che credevamo stesse iniziando a scemare con l’età. Cristiano Ronaldo è ancora uno degli uomini più decisivi al mondo in un gioco in cui i punti la fanno ancora da padrone.
C’è poi da evidenziare l’ossatura futura, o spina dorsale, dei bianconeri che risponde a tre giocatori su tutti: De Ligt, Bentancur e Dybala. Ai quali si aggiungerà Arthur dalle prossime settimane.

De Ligt non è un brocco
L’olandese, arrivato a fronte di un esborso economico astronomico, ha dimostrato difficoltà di adattamento al calcio italiano importanti, tanto che a inizio stagione ci si chiedeva se il gioco fosse valso la candela, senza tenere in conto che con l’infortunio di Chiellini venivano a mancare tutte le condizioni per un suo graduale ambientamento. Nonostante tutto, l’intero arco della stagione ci ha detto che De Ligt è in assoluto uno dei migliori centrali d’Europa, perché a 20 anni ha saputo tenere botta nei momenti di massima pressione e crescere anche non avendo tempo a disposizione. Nelle ultime settimane abbiamo assistito ad un giocatore completamente diverso da quello degli inizi, combattivo, aggressivo, indomito e sopraffino nella letture difensive, migliorato anche sotto il profilo dell’attenzione in marcatura.

Bentancur, valore aggiunto
Di Bentancur, abbiamo già parlato spesso e ampiamente. L’uruguaiano divenuto indispensabile data l’assenza forzata e prolungata di quella che era la prima scelta di Sarri per il ruolo di mezzala (Khedira), ha occupato stabilmente la posizione di interno di destra, avendo un impatto sostanziale sia in termini di quantità che di qualità, ma, soprattutto, di aggressività, risultando elemento fondamentale per l’incisività del pressing bianconero e delle transizione negative: grazie ad una capacità tutta sudamericana di mettere in atto break e successive risalite del campo in velocità. Un classe ’97 del genere con ampi margini di miglioramento sotto il profilo degli smarcamenti e del peso in area di rigore può, e deve ambire, ad entrare nei primi cinque nel ruolo del panorama internazionale.

Dybala, campione assoluto
Finalmente è arrivata la risposta alla domanda di tanti appassionati: Dybala è un fenomeno o non lo è?
Questa stagione ci ha dimostrato che l’argentino, alla soglia dei 27 anni, ha raggiunto l’apice, il massimo delle sue potenzialità tecniche, fisiche e psicologiche, così come quella dimensione di fuoriclasse sulla quale ci interrogavamo.
Lo ha fatto con le prestazioni, che ci hanno detto che la Joya è in assoluto il miglior giocatore bianconero e, probabilmente, dell’intera Serie A.
Lo dicono i numeri ma soprattuto il modo in cui Paulo ha vissuto il campo in maniera diversa, riuscendo ad esprimersi al meglio prescindendo dal sistema di gioco, dai compagni o da quanta distanza lo separasse dalla porta. Il suo apporto non ha avuto eguali rispetto a tutte le altre alternative della squadra nell’ultimo passaggio, nella creazione della superiorità numerica e nella capitalizzazione delle occasioni.
Da semplice giocatore con un sinistro eccezionale, la Juve ha trovato in lui quel “tuttocampista” di cui parlava Massimiliano Allegri, e il 10 del futuro più prossimo della società.

La serie A non è ancora pronta per andare oltre la Juve
Altra verità, ultima e forse quella più dolorosa, raccontataci dal nono scudetto di fila della Juve, è che la Serie A non è ancora pronta per andare oltre la Juve. Per quanto durante la stagione abbiamo avuto l’impressione che il dominio dei bianconeri potesse essere spezzato, abbiamo dovuto ricrederci. Le concorrenti si sono annullate da sole.
La prima a dare forfait è stato il Napoli
che ha inevitabilmente segnato la sua stagione con il disastro ancelottiano, finendo fuori dai giochi praticamente alla prima curva. Successivamente abbiamo creduto che l’Inter e la Lazio potessero sottrarre lo scettro ai campioni ma così non è stato semplicemente perché non potevano di meglio.
I nerazzurri hanno provato a sfruttare all’osso il fattore Conte, ma ad un certo punto lo stesso allenatore salentino si è accorto dei limiti strutturali dei suoi e di troppi equivoci tattici che ne minavano la crescita esponenziale. Non si spiegano altrimenti i troppi passaggi a vuoti manifestati nel periodo post-lockdown.
Ripresa che è costata cara anche alla Lazio. I biancocelesti, presi dall’entusiasmo e dalla smania, non ci fosse stata la pausa avrebbero avuto davvero serie opportunità di conquistare il tricolore. Lo stop però li ha sgonfiati, riportandoli sulla terra a fare i conti con la realtà: incapacità di reggere alle pressioni, profondità dell’organico insufficiente, alcune pedine tecnicamente inadeguate. Sarebbe inopportuno allargare il discorso all’Atalanta: partita con obiettivi differenti, ha lottato per conquistarli e ci è riuscita decorosamente.

Fatto sta che, in attesa di giocarsi le sue chance in Champions League, la Juve ha fatto il suo dovere in campionato e senza ricorrere ad oracoli sembra possa continuare a farlo negli anni a venire.