La scorsa settimana nel tentativo di far rivivere il calcio contemporaneo attraverso l’analisi di una delle più illustri penne della storia del giornalismo sportivo italiano, ci siamo lasciati andare al vezzo di scrivere una storiella immaginaria: un commento critico della stagione 2019/2020 firmato Gianni Brera. È stata un’iniziativa che ha accolto numerosi consensi e poi, naturalmente, qualche contestazione. Proprio queste ultime ci hanno spinto a fare un passo avanti, oltre.

Indro Montanelli, figura, oggi al centro di polemiche, ma di spessore nel giornalismo del Novecento, scrisse di Brera:
La sua lunga carriera fu costellata di risse: ne fece con tutti, non solo a proposito di lingua. Specie in fatto di calcio pretendeva di saperla più lunga di qualsiasi presidente di società. O commissario tecnico, o allenatore, e la cosa è tuttora, presso addetti ai lavori, oggetto di contestazione. I suoi giudizi inappellabili, erano colpi di clava. I giocatori che non gli piacevano li chiamava, quando andava bene, abatini; e quando andava male, palabràtici o posaglutei. La sua fortuna fu quella di essere vissuto in un’epoca in cui i duelli erano passati di moda. Altrimenti avrebbe trascorso le sue giornate a bucare e a farsi bucare. Ma non ci fu mai furor di litigio né oltranza di polemica che riuscissero a fare di Brera un uomo meschino o un collega sleale”.

La dialettica con la scuola napoletana
Ecco, per chi non lo sapesse negli anni ’60 e ’70 la contestazione era all’ordine del giorno, le pagine dei quotidiani erano scena di battaglie tra giornalisti “rivali”. Gianni Brera, da solo, era schierato “filosoficamente” contro la scuola napoletana guidata da Gino Palumbo e Antonio Ghirelli.
Per Brera i colleghi di calcio non capivano nulla e non avrebbero dovuto scriverne, la tattica e la tecnica erano due concetti a loro sconosciuti, e tutto ciò che buttavano sul foglio si rifaceva al sentimento. La dialettica, dunque, era tra i breriani, conoscitori esperti di sport, e i partenopei attenti più agli aspetti socio-antropologici delle fenomenologie sportive che ai gesti stessi.
Insomma, da una parte la pratica e dall’altra la teoria. Da una parte il concetto e dall’altra l’azione e, soprattutto, come se si fosse ai nostri giorni, da una parte il risultato e dall’altra il bel gioco. Ma più in generale se per Brera era bianco, per Palumbo era nero e viceversa, e avanti cosi a battibeccare domenica dopo domenica.

La risposta di Palumbo
Da queste premesse ne abbiamo avuta un’altra.
Gino Palumbo era “il Coppi” del giornalismo sportivo italiano, colui che ha inventato un modo nuovo e diverso di concepire il mestiere, creando dal nulla una maniera: parlare facile al lettore, inventare l’«ecco perché» per coinvolgerlo, raccontare a caldo, del dopo-partita, per lasciare spazio alle emozioni dei giocatori, alle curiosità, ai retroscena, al non detto delle gare. La tattica che fa spazio all’uomo: interessa ciò che lui prova in campo e ciò che lui prova guardando altri uomini in campo. “Ecco perché” questa filosofia va in contrasto con i canoni classici, “ecco perché” vogliamo dare l’opportunità a Palumbo di rispondere al pezzo di Brera dalle nostre pagine. Naturalmente ha colto al volo l’occasione. Le sue parole: 

“Cari lettori, ben ritrovati.
La scorsa settimana ho avuto modo e fortuna di leggere su queste pagine il cosiddetto “commento definitivo alla Serie A 2019/2020” di un esimio mio collega. Non ho potuto fare a meno di avvertire la necessità irrefrenabile di scendere in campo e di prendere posizione in merito ad alcune analisi da lui avanzate e a giudizi al vetriolo, consoni a chi guarda al calcio con gli occhi del padrone ma non a chi vede “nel” calcio il più puro e semplice teatro della vita, una rappresentazione dell’umane emozioni e vicissitudini.

Innanzitutto, non me ne voglia “Dio”, ma la stagione che va a concludersi per quanto possa muovere le polemiche e l’astio di chi per indole non è avvezzo al divertimento, è quanto di meglio potevamo chiedere. Ci hanno dato l’NBA? Che l’abbiano in gloria. Questo è lo spirito dei tempi, un mondo, quello dello sport in toto, che procede verso la spettacolarizzazione. Molte regole possono sembrarci assurde e crearci patemi d’animo ma ci proiettano nel futuro: nell’intrattenimento più totale. Il calcio non è oppio dei popoli, bensì gioia e paura, ciò per cui viviamo. Ben vengano le reti e i rigori, ben vengano le difese ballerine e gli spazi che permettono gesti tecnici da visibilio. Siamo uomini, non caporali. Che continuino a stupirci, gli altri guardino le repliche degli anni che furono.

La Juventus non è più la sua storia
Gli anni che furono che, lasciatemi dire, non sono gli anni che sono. Lo scudetto è ancora in ballo, non credo che la Juventus possa sentirlo già cucito sul petto per diritto. I bianconeri non fanno più parte della storia che li ha partoriti, sia per scelta, che per evoluzione e incapacità.

Ho sentito parlare del pragmatismo dei nobili, di una nobiltà che si vergogna degli slanci plebei. La Juventus non è più una squadra del Nord, è molto più popolana, e all’insieme popolare, di quanto si possa credere, la forza del Brand J su Instagram non fa che confermarcelo, ma è un dato che viene da lontano. Viene dal Sud, dove c’è il vero amore per i bianconeri, viene dal contrasto, da quella fase confusa che per troppo tempo ha offuscato il calcio del mezzogiorno e che invece di far nascere asprezza, invidia e risentimento che scaturisce in rivalità, ha fatto sorgere simpatia e tifo. Se non hai mezzi per essere nemico, alla fine della giostra, diventi compagno.
È divenuto compagno Sarri, quello che ci sembrava l’ultimo baluardo di una rivoluzione che sarebbe partita dalle pendici del Vesuvio. Sarri che è stato scelto da Agnelli, un Presidente veggente, che ha avuto il coraggio di mettere la vittoria in secondo piano per perseguire l’ideale dello sport futuro, che come dicevamo è lo spettacolo. Per questo potrebbero perderlo lo scudetto, chi vuole divertire baratta inevitabilmente il potere. Vi immaginereste un clown Primo Ministro? Riescono a farlo solo i giocatori bianconeri stessi, che non potevano e non possono entrare in questo processo evolutivo per limiti anagrafici, qui ci sono i veri problemi, qui forse i veri errori delle dirigenza.

Ogni forma di rappresentazione per avere riuscita si basa sull’armonia e sul collettivo, agli antipodi dall’ingrediente principale del successo: l’individualità. I calciatori non hanno effettuato questo passaggio, la squadra non è diventata squadra, poteva non esserlo prima, è rimasta una accozzaglia di solisti, solisti che avvertono di non essere al posto giusto, sono stanchi e si esauriscono: non è un dispetto a Sarri, non è voluto.
Sul fatto che Sarri avesse fatto bene a Napoli perché squadra femmina e tollerabile, mi permetto di citare il mio amico Arpino: “non avessimo bisogno delle donne saremmo tutti signori”.

Napoli o Atalanta?
Non sono d’accordo nel definire l’Atalanta vincitrice di un campionato minore, il campionato è uno ed è ancora aperto. Gli orobici sono stati per lunghi tratti della stagione la squadra più in forma, non la migliore. Parliamo della differenza tra chi è capace e chi si impegna, il secondo può prevalere sul primo, se e solo se quest’ultimo latita. Non a caso è arrivato dopo innumerevoli vittorie il pareggio con il Verona di Juric, un undici votato alla dedizione molto più delle prime della classe e che, assieme al Sassuolo, è probabilmente la vera rivoluzione della stagione molto più dei nerazzurri. Si scorge nei progetti gialloblu e neroverdi una sincronia tra sport, economia e futuro che sarà humus costitutivo del prossimo calcio italiano. Meritano comunque i complimenti i ragazzi di Gasperini, non per i risultati ma per le critiche di cui sono stati oggetto: quando non hai nemici significa che hai sbagliato tutto.

Ma la seconda forza del campionato è ed è sempre stata il Napoli, ce lo confermano proprio le ultime vittorie degli azzurri, arrivano in un momento morto della stagione, solo preparatorio a quella che sarà la sfida col Barça. Ciò ci mostra le vere potenzialità di una squadra in grado di arrivare al successo a regimi minimi, e il peccato ancelottiano.
Gli ingredienti per il successo nella città di Pulcinella esistono da decenni, ma prevaleva sempre un male antico: l’improvvisazione. Così le continue sconfitte si sono trasformate in angoscia, quasi fossero prove d’incapacità collettiva, segno d’inferiorità irreversibile. Con Gattuso vedo i primi frutti di un lavoro caparbio. Il Napoli sta costruendo un’intelaiatura solida: è il capolavoro del presidente che nel momento peggiore della tempesta ha mantenuto la lucidità per immaginare cosa sarebbe stato quando le nuvole sarebbero andate via. Le qualità di un allenatore, le qualità dei giocatori non bastano in un ambiente difficile qual è quello napoletano. Se non c’è la società a muovere i fili, tutto sarebbe crollato a metà torneo: come tante volte è accaduto in passato. E quell’entusiasmo può diventare spinta galvanizzante verso aspirazioni più elevate.

Quale Cenerentola?

Mi oppongo poi ad una Lazio “Cenerentola” che non poteva essere altrimenti. Non ci siamo illusi. I biancocelesti avevano, hanno tutt’ora, delle mancanze strutturali ma l’entusiasmo e il lavoro d’Inzaghi in una stagione “standard”, non segnata dalla Pandemia, avrebbero potuto significare un’impresa oltre l’immaginabile. È un sogno caduto per contingenza, non per destino. Penso a uomini rinchiusi in casa per mesi ad convivere con la pressione di dover vincere, dimostrare e dover riconfermare quanto di fatto fino a quel punto. Hanno ceduto per stanchezza mentale, non si fossero fermati non avrebbero avuto il tempo di pensarci.

Milano da bere per dimenticare
Trovo gli stessi errori nelle milanesi. Milano è sempre stata competizione, emulazione. Di fronte a chi ha successo, pensano: se lavoro e mi impegno come lui, riuscirò anche io. Da troppo tempo non ci riescono più. Il motivo non può spiegarvelo chi interpreta il calcio fermandosi all’erba, ai moduli e ai numeri. Si parla di quanto Elliott non sia per il Milan mano invisibile, non è che il giovane Zhang sia presente. Volevano entrambe ripetere il processo bianconero, quello della rinascita che dalla serie B li ha portati al dominio, ma hanno perso di vista la differenza tra un tesserato e il proprietario. Non serve mettere sotto contratto Marotta, né Maldini, ne qualunque signore arriverà dalla Germania e metterli lì alla scrivania. Ai giocatori interessa la presenza di chi li paga, è il dialogo con il capo che aggiorna l’autostima, gli altri sono compagni di strada. I semi possono anche essere buoni ma è la cura che li fa crescere. Spero queste parole arrivino anche sulla sponda del Tevere.

L’ego smisurato di chi non ha rispetto
Mi hanno inorridito le critiche brute a Montella, al Genoa e al Torino. Mi chiedo a cosa sono figlie. Dato il mestiere siamo chiamati a dare giudizi, non pugnalate, né tantomeno a sfruttare la nostra celebrità per essere causa di maremoti o contestazioni. Ogni qualvolta la nostra penna tocca la carta, ricordiamoci che stiamo scrivendo di uomini, non di nomi, non di numeri: soggetti sensibili.
Prendo l’onore di sgravare l’ex aeroplanino dalle accuse, lo vedo più perseguitato dalla sfortuna che lo insegue come una nuvola fantozziana che scarso. Ha fatto molto bene in condizioni favorevoli, ma il vento non gira a suo favore da troppo tempo. A Milano, a Siviglia, ancora a Firenze non bastava un buon timoniere per salvare navi in burrasca. Chi poteva aspettarsi di più dalla Viola? Tecnicamente sono poca cosa, fanno ciò che possono. Prima di mirare a degli obiettivi seri bisogna allestire una squadra seria.
Spero il Genoa non vada in B, fa parte della storia del nostro campionato e le emozioni che la curva rossoblù ci regala vanno ben oltre i giochi di prestigio di Preziosi.
E, prima di mandare alla leva i giocatori del Torino, consiglio di ripassare la storia e guardare a Belotti, l’immagine più pura della squadra granata. Da Superga a Meroni a Ferrini, la storia del Toro obbedisce a un copione drammatico. Di rappresentazione in rappresentazione, società tifosi, giocatori si sono cuciti addosso una divisa mentale ormai indelebile come la maglia: è più importante soffrire che non vincere. Quest’anno non sono stati da meno.

E Fabian?
Chiudo con la discussione in merito ai migliori centrocampisti del campionato. Di Tonali e Bentancur ci affascinano la semplicità seriosa, l’incantevole modestia, il loro essere uomini nel modo di giocare, di correre, di lottare, voglio atleti sani, puntigliosi, ligi. Sono l'emblema di ciò che deve essere un centrocampista, di quando da ragazzi si vive per il calcio, uscendo col sudore e l'umiltà per andarsi a conquistare il successo, che otterranno. Ma, e nessuno me ne voglia, nessuno è superiore a Fabian Ruiz.
Lo spagnolo vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell'attacco e, scattando a fior d'erba, arriva a concludere. Un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Fabian, un mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione. Non menzionarlo vi restituisce la cifra di chi si approccia al calcio solo per lavoro. È molto altro.

In fede, Gino Palumbo”