Tra i tanti motivi che ci spingono a seguire il calcio, e che ne fanno uno degli sport più amati al mondo, ce n'è uno che cattura irrimediabilmente la nostra fantasia:  l'imprevedibilità.  Come dicono, infatti, i vecchi saggi la palla è rotonda, e tale peculiarità dello strumento principe del "pallone" fa sì che in campo (quasi) tutto possa succedere, spesso (ma sempre più raramente) ribaltando i pronostici e facendosi assistere ad imprese dai connotati epici in pieno stile omerico (pensiamo al trionfo della cenerentola Leicester qualche anno fa nella lega più competitiva del panorama calcistico europeo). Eppure, in uno sport cosi sorprendente ci sono alcune verità assolute, incrollabili. Una di queste ci è stata ribadita (come se ce n'è fosse il bisogno) solo qualche giorno fa dal ds della Juve Fabio Paratici mentre difendeva a spada tratta Federico Bernardeschi in conferenza pre-Lecce: "Diciamo che viviamo in un mondo molto veloce, il calcio è ancora più veloce. Giochiamo la domenica, un giocatore segna una doppietta ed è un fenomeno assoluto, giochiamo il mercoledì, il giocatore fa una prestazione un po' opaca e diventa subito in discussione". In pratica, per giocatori e allenatori, il guado tra l’essere un fenomeno e un brocco è estremamente breve. Ne sa qualcosa Antonio Conte che da uomo della rinascita nerazzurra si è ritrovato, nel giro di qualche mese, a scivolare in un vortice di critiche contraddistinte dal massimo comune denominatore del fallimento. Valutazioni negative, però, che inserite in un contesto storicamente, tatticamente e tecnicamente adatto potrebbero finire per essere placate sul nascere.

La percezione dei nerazzurri

Se riavvolgiamo il nastro e corriamo al 9 febbraio 2020 recuperiamo un’istantanea: l'Inter a San Siro strapazza il Milan e vince il derby 4-2. I mass media, così come i tifosi, sono entusiasti. I nerazzurri si confermano la principale antagonista della Juventus, così grandi da oscurare, almeno sulla carta stampa, anche la Lazio, soprattutto per la qualità dell'organico che a detta di molti ha dimostrato di aver colmato il gap con i bianconeri. Passa una sola settimana da quella serata fantastica e i ragazzi di Conte inciampano a Roma proprio contro la Lazio d'Inzaghi. La sconfitta è presa con una certa tolleranza, quasi come se si volesse dare a quella squadra un margine d'errore. In fondo i nerazzurri, con una partita in meno, si presenteranno allo Stadium (l'otto marzo) a soli sei punti dalla vetta, dunque potenzialmente a tre lunghezze dalla capolista e con il destino saldamente nelle proprie mani. A Torino, però, non va come ci si aspetta. La banda di Sarri si dimostra superiore e infligge all'Inter una sconfitta netta e meritata. Si alzano i primi mugugni, contestazioni che si sedimentano, e non esplodono, perché distratte dal Covid. Pandemia che nel frattempo cattura l'interesse del Paese e di tutti i tecnici d'Italia, impegnati ad assumersi il ruolo di virologi. Per tornare alla normalità bisogna aspettare la Fase 3. Ricomincia il campionata e gli scienziati possono dismettere il camice e reindossare la tuta. Parallelamente, la ripartenza dei nerazzurri è da shock: prima falliscono l'accesso in finale di Coppa, poi faticano tremendamente a superare il Brescia e, successivamente compiono un mezzo disastro dal sapore di resa in casa con il Sassuolo. Il sedimentato emerge e scoppia: Antonio Conte ha fallito!

Contestualizzare

"Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio"
(Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo). Dai vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca) sappiamo che Gesù ai farisei, che gli chiedevano se fosse o meno giusto per gli ebrei pagare le tasse, mostrò l'immagine e le iscrizioni riportate sulle monete, che facevano tutte riferimento a Cesare e dunque bisognava dare all'Imperatore ciò che gli spettava. Bene, se l'Inter fosse un soldo andrebbe dato a Conte, perché tutto ciò che è stata capace di fare in questa stagione porta iscrizioni riferenti al proprio condottiero. Mentre ciò che, ad oggi, non riesce a conseguire ha radici non pugliesi, ma ben più lontane e profonde: le pressioni, il Covid ed Eriksen.

A Cesare quello che è di Cesare; al tempo, tempo

Nonostante Antonio Conte sia uno dei tecnici più stimati d'Europa ha un difetto conosciuto, messo in conto certamente da Marotta e soci dall'inizio della sua avventura a Milano. Tutti i cicli vincenti generati dall'allenatore leccese hanno goduto di una partenza privilegiata, ovvero di un contesto ambientale privo di qualsivoglia pressione. La Juve ereditata da Del Neri era reduce dalla B, da alcuni anni d'oblio e da due settimi posti. La Nazionale dal disastro Prandelli e il Chelsea da un decimo posto inaspettato che lasciava pensare alla fine di un ciclo e a tempi lunghi per il ritorno alla vittoria. In tali circostanze Conte ha potuto godere del suo habitat naturale, un locus ameno lontano dai riflettori, dove poter lavorare serratamente con attenzione e qualità sul campo di allenamento, dove poter rendere il lavoro stella polare della sua organizzazione. Sia a Londra che a Torino durante il primo anno potè permettersi di raddoppiare le sedute perché non aveva impegni europei, avendo così il privilegio di curare i dettagli in maniera maniacale (su questo aspetto ci ritorneremo). All'Inter ciò non è stato possibile, perché i nerazzurri hanno dovuto affrontare le Coppe (soprattuto la Champions abbandonata senza troppe remore) e hanno portato a Milano troppi nomi grossi, innazlando inevitabilmente l'asticella delle pressioni e delle ambizioni. Se, inizialmente, sembrava che tale stravolgimento degli scenari, consoni al tecnico, non avesse rappresentato un ostacolo, ciò lo è diventato con il sopravvenire del coronavirus.

Maniacalità in quarantena

Sappiamo che indicare la pausa forzata come uno dei principali mali dell'Inter possa creare discussione, in quanto alla pausa sono stati costretti tutti. Eppure, quando fai del lavoro e, soprattutto, della maniacalità le tue stelle guida, l'allontanamento dai tuoi adepti può essere causa di ripercussioni più dolorose rispetto a quelle vissute da altri. Per entrare in sintonia, quasi spirituale, con i propri giocatori, facendo sì che questi sul campo facciano esattamente ciò che lui ha in testa, Conte durante la settimana ripete le giocate fino allo sfinimento. Finché queste diventano movimenti base, come il tenere in mano una forchetta, naturali. Tutto deve essere memorizzato e poi applicato in modo diverso a seconda delle situazioni di gioco. È un lavoro che non può prescindere dalla quotidianità, ammazzata dalla quarantena, che prima ha spezzato i contatti e adesso ti obbliga a non allenarti quasi mai: si gioca ogni due giorni.

Brozovic, o meglio Eriksen

Come se non bastasse, mentre il ritmo della stagione diventa forsennato, perdi Brozovic, un giocatore fondamentale per l'Inter quanto un cappello nel deserto. L'unico in rosa capace di leggere e interpretare il gioco, di giocare corto con entrambi i piedi, di verticalizzare, di effettuare coperture preventive, di gestire il pallone sotto pressione e di controllarlo come pochi in A, in modo da ridurre al minimo i tempi tra le giocate. Stiamo parlando del Gotha del centrocampo nerazzurro che permette sia le giocate dei compagni, sia di schierarlo con chiunque di loro. Ecco che sostituirlo diventa compito impossibile e, soprattutto, non affare tecnico risolvibile con il mero inserimento di Eriksen: il più grande equivoco della stagione. Se il danese è stato acquistato lo dobbiamo alla vicinanza che intercorreva, appunto, tra l'Inter e la Juve a gennaio: si voleva rafforzare la rosa per tentare il colpo. Il valore del giocatore non si discute, non puoi se stai trattando l'unico giocatore, assieme a David Beckham, ad avere messo a referto almeno 10 assist per 4 stagioni in Premier League. Un giocatore che dal debutto in Inghilterra ha fatto più assist, creato più occasioni da gol, realizzato più gol da fuori area e da calcio piazzato, di tutti gli altri. Insomma un profilo tecnicamente eccezionale e che dimostrava una notevole sensibilità tattica. Un profilo, però, calato in un sistema estremamente definito non adatto ad accoglierlo, perché non costruito per un trequartista. Conte ci ha provato ad inserire il danese come mezzala nel suo 3-5-2, ma quest’ultimo non ha convinto fino allo stop. È stato a Napoli che abbiamo visto per la prima volta un 3-4-1-2 con Brozovic e Barella mediani ed Eriksen centrale, la scena si è ripetuto col Brescia e col Sassuolo ma non è andata come ci si aspettava. Anzi, questa disposizione ha dato l'impressione ha dato l’impressione di far saltare il banco tattico nerazzurro più che quello degli avversari.

Gli effetti collaterali del danese

Inserire il danese nel proprio contesto di gioco, al momento, crea ad Antonio Conte più effetti collaterali indesiderati che giovamento. Passare a due pivot costringe a cambiare totalmente le modalità di costruzione bassa, e gli stessi esterni sembrano spaesati senza potersi muovere in coordinato con le mezzali. In più la presenza di un dieci abbatte il classico gioco della coppia: piatto forte del leccese. I due attaccanti non combinano più tra loro e vanno raramente in profondità, galleggiando orizzontalmente ed allargandosi troppo spesso. Tante fortune dello schema contiano per eccellenza ballano sulle punte che fanno risalire la squadra, che l'allungano, che combinano, che rifiniscono e, solo infine, finalizzano (è cosi dalla prima Matri-Vucinic). Per permettere tale meccanismo l'escamotage è uno soltanto: lo svuotamento delle zona centrale ora occupata da Eriksen. Insomma, i nerazzurri oggi non sembrano la squadra ideale per Eriksen, così come Eriksen non ci sembra il giocatore ideale per questa Inter. Un'Inter in difficolta, certo, ma non per colpa di Conte, che, certo, è passibile di critiche ma non imputabile come fallimentare. Basta contestualizzare.