Dopo aver parlato, urlato, manifestato a lungo, si sono fermati. Hanno lasciato parlare il silenzio.

Le scarpe da basket hanno smesso di fischiare sul legno duro del rettangolo da gioco e i palloni di rimbalzare. L’NBA si è fermata. Successivamente, le mazze non hanno avuto più palle da baseball da colpire. Cinque partite di MLB sono state cancellate. Anche il Western & Southern Open (US Open) ha detto stop. Lo sport era, è stato, semplicemente troppo da sopportare.

Quello sport che veniva da settimane durante le quali aveva provato ad attirare l’attenzione sulla questione dell’ingiustizia razziale, sulle paure che molti “attori” provano ogni giorno. Quello sport, lo sport americano, che chiedeva di andare avanti cambiando, ha deciso che avanti non si potesse più andare. Gli inginocchiati e gli slogan sulle magliette avevano perso di potenza. Restava il silenzio.

Il silenzio che non aveva più nomi di morti da dire, il silenzio di contro la sofferenza.

È cominciato tutto nel Wisconsin

La sofferenza acuita dall’episodio brutale andato in scena domenica 23 agosto. 

Jacob Blake, 29enne afroamericano di Kenosha, nel Wisconsin, è stato colpito alle spalle da sette colpi di pistola sparati da un agente in servizio. Nel video e nelle ricostruzioni viene raccontata la gravità dei fatti: il ragazzo era disarmato e stava rientrando nella sua automobile, in cui c’erano anche i suoi figli; uno degli agenti di polizia presenti sul posto, intervenuti a causa di una rissa che lo stesso Blake stava cercando di sedare, gli ha sparato più volte alla schiena. Ora Jacob è ricoverato e in ogni caso sembra destinato a rimanere paralizzato dalla vita in giù.

La sofferenza che ha spinto i Milwaukee Bucks e l’intero sistema NBA a fare la storia dello sport, non americano (sia chiaro) ma mondiale. 

La notte tra il 26 e il 27 agosto è nuovo inizio

È la notte tra il 26 e il 27 agosto, la squadra di Giannis Antetokounmpo è attesa da gara-5 dei playoff contro Orlando, decide di non scendere in campo per protestare contro la violenza e la discriminazione della polizia statunitense nei confronti dei neri e di altre minoranze. Ci si ferma per un motivo prettamente sociale e di giustizia razziale, è un gesto coraggioso ed epocale. 

Un’azione che, come nessuno poteva immaginare, ispira una delle più ampie dichiarazioni politiche nei campionati sportivi: scioperi che coinvolgono centinaia di atleti di basket, baseball, calcio professionistico maschile e femminile, star del tennis mondiale.

Bersaglio presidenziale

Mai prima d’ora il mondo dello sport, restando in silenzio, si era espresso cosi drasticamente, schierato contro una visione Trumpiana, che proprio in quelle ore veniva presentata alla Convention nazionale repubblicana.

Il Tycoon newyorchese glissava sulla questione con un “la gente è un po’ stanca della NBA”, mentre Jared Kushner, genero del presidente e uno dei suoi consiglieri senior, dichiarava alla CNBC: “Penso che i giocatori NBA siano molto fortunati ad avere la posizione finanziaria in cui sono in grado di prendere una notte di riposo dal lavoro senza dover avere le conseguenze finanziarie per se stessi “.

Due modi di vedere e sentire gli altri

Davanti agli occhi si palesano due Americhe, due modi di vedere e sentire gli altri, generazioni distanti.

Lo sport capisce. Lo sport non può più offrire proteste gentrificate. I giocatori prendono consapevolezza del proprio potere, hanno l’opportunità di fare molto più di una semplice dichiarazione. La colgono.

“Siamo spaventati come i neri in America”, ha detto LeBron James. “Perché non sai, non hai idea di come quel poliziotto quel giorno sia uscito di casa. Non sai se si è svegliato dalla parte giusta del letto, se si è svegliato dalla parte sbagliata del letto…O forse è uscito di casa dicendo: oggi sarà la fine per uno di questi neri. Ecco come ci si sente.”

Jaylen Brown dei Boston Celtics si è chiesto: “Non siamo esseri umani? Jacob Blake non è un essere umano? Meritava di essere trattato come un essere umano e non meritava di essere fucilato “.

Sterling Brown, di Milwaukee ha letto una dichiarazione: ”Nonostante la schiacciante richiesta di cambiamento non c’è stata alcuna azione, quindi oggi non si può giocare a basket”.

Si sceglie di guardare ad una generazione, di incoraggiare ad un’avanguardia impegnativa.

Il passo successivo

Lo sport americano, l’NBA, fa il passo successivo, va oltre il fervente attivismo ispirato quest’anno dall’uccisione di George Floyd. Trova il modo di trainare una Nazione martoriata da 400 anni di ingiustizie razziali, la maniera per combatterle le ingiustizie e la violenza.

Si erano già spesi per lavorare all’interno delle loro comunità e per il cambiamento. Avevano ripreso a giocare per utilizzare i mezzi televisivi come piattaforma per le loro lamentele. Avevano customizzato campi, scarpe, maglie e bandiere con #blacklivesmatter. Si sono inginocchiati.

Ma quelle proteste non avevano potere. Chi si avvicinava a quei movimenti sembrava avvicinarsi ad una moda passeggera. La violenza contro i neri difatti aumentava.

L’ultima arma spendibile era il silenzio. Una scossa per leghe, proprietari, tv, che vivono di partite trasmesse e sponsor. Lo sport sprigiona tutta la sua potenza, quella di fornire uno shock allo status quo. Ma una scarica così forte non era mai stata data prima. Si è passati ad un nuovo livello.

Gli atleti non esiteranno a colpire di nuovo. La prossima interruzione potrebbe durare più a lungo. Forse il contraccolpo sarà ancora più decisivo, perché quel silenzio fa un rumore assordante.

Sta di fatto, che i giocatori NBA si sono imposti come punto di riferimento per l’intero sport americano e mondiale. La lega di basket più spettacolare al mondo, spesso alla ribalta come mero intrattenimento, come luna park per adulti, con una sferzata ci ha fatto ricredere tutti. Quella lega, l’NBA, è a capo della lotta razziale nel mondo.

C’è solo da seguirli.