“Qui è l'uccello che non volò mai Qui è l'albero che non crebbe mai Qui è la campana che non suonò mai Qui è il pesce che non nuotò mai”

 

Da quasi un decennio, in Italia siamo assuefatti dalle vittorie juventine. Il club bianconero, nella sua storia, ha spesso e volentieri fatto la voce grossa tra le mura amiche; eppure, tra i trenta e passa scudetti recapitati dalle parti di Torino da inizio Novecento, non sono mancate annate in cui altre squadre sono state in grado di alzare al cielo il trofeo.

Sebbene negli ultimi anni un comune sentimento di noia abbia investito il calcio nostrano, ormai abituato a un’unica squadra dominatrice, i campioni sono sempre fioccati lungo tutto lo stivale. Come non ricordarsi di fine anni Novante e dei primi anni duemila, quando l’Italia era al centro delle mappe calcistiche e si parlava delle sette sorelle. Dalle milanesi alle romane, passando per il Parma e la Fiorentina, oltre alla già citata Juventus, la sfera sembrava innamorata delle bellezze tricolori, tanto che, a livello internazionale, il fascino azzurro non aveva eguali.

Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa è indubbiamente cambiato. Complice una competitività venuta meno, una gestione non ottimale delle finanze societarie e le caliginose idee dei direttori sportivi, il campionato di Serie A ha perso numerose posizioni, passando da modello che contava innumerevoli tentativi di plagio, ad archetipo di datata confusione. Tuttavia, è opinione comune che sia iniziato in questi mesi estivi un processo di svecchiamento utile a riportare la Serie A al centro del mondo.

Si è parlato della noia che attanaglia i tifosi italiani. Ebbene, si immagini un mondo remoto, ai confini settentrionali dell’Europa, separato dal Vallo di Adriano dall’Inghilterra, divenuta senza ombra di dubbio centro nevralgico del pallone. In quella terra, ove spesso la leggenda si fonde con la realtà, esistono due squadre che di terreno hanno ben poco: sono il Celtic Football Club e il Rangers Football Club.

La loro rivalità è divenuta mitica, condensata nel cosiddetto Old Firm, il derby di Glasgow, ovvero la partita più antica che l’umanità calcistica possa ricordare. Non esiste classica che fonda il sacro e il profano in maniera più marcata: da una parte, i cattolici del Celtic; dall’altra, il protestantesimo dei Rangers. Da sempre, il calcio scozzese è una questione di fede, e le due squadre il manifesto del proprio credo: difatti, non troverete mai un cattolico tra le fila dei Teddy Bears, così come nessun protestante si vestirà di biancoverde.

Il primo Old Firm (o Auld Firm, come piace chiamarlo ai Glasvegiani) è datato 6 settembre 1890: il Genoa, prima squadra italiana per nascita, verrà partorita solo tre anni dopo. Da quella remota data, si sono susseguiti altri quattrocentosedici derby di Glasgow.

I freddi numeri non permetterebbero però la comprensione di quanto sia importante e radicata tale partita. Laddove essi falliscono, intervengono gli esempi: basti pensare che il Clàsico è stato disputato duecentosettantaquattro volte, il derby d’Italia duecentrotrentacinque; il derby della Madonnina si ferma a duecentoventitrè. E ancora: il derby Intercontinentale, che mette di fronte le due squadre di Istanbul (Galatasaray e Fenerbahce), è stato disputato duecentosettanta volte, al netto delle partite amichevoli; il Superclasico di Buenos Aires, duecentottanta. Insomma, l’Old Firm, se paragonato al calcio internazionale, è una partita incommensurabilmente più sentita.

Se il mero soffermarsi sul derby di Glasgow non fosse necessario, si dia un’occhiata all’albo d’oro del campionato scozzese. Edizioni disputate: centoventitrè; vittorie Rangers: cinquantaquattro; vittorie Celtic: cinquanta. Solo in diciannove occasioni altre squadre sono state in grado di alzare il trofeo; la terza per numero di vittorie è l’Aberdeen, con soli quattro successi.

Non è un mistero che, negli ultimi anni, il Celtic si sia seduto, consapevole di essere praticamente inarrivabile per il prossimo ventennio; i Rangers, dall’arrivo di Gerrard sulla panchina, stanno provando a ripartire, cercando in tutti i modi di mettere i bastoni fra le ruote ai cattolici cugini, risultando fino ad oggi inefficaci. La mancanza di competitività, sulla quale da tempo noi italiani ci martelliamo, ha sortito un effetto-farfalla devastante per le casse e per il fascino dei biancoverdi, i quali, nonostante l’assoluta superiorità in termini di fascino e notorietà, si ritrovano ogni anno a dover partire dal primo turno preliminare al fine di raggiungere la Champions League, fallendo spesso nell’intento, rendendo così già da settembre la stagione anonima e priva di ogni significato. Nonostante ciò, il Celtic Park è sempre una bolgia e raccoglie tifosi di tutte le età.

A questo punto sembra lecito chiedersi come un campionato del genere possa smuovere ancora oggi il sentimento degli appassionati scozzesi. Ebbene, si dia uno sguardo alla media spettatori dei due club di Glasgow nell’ultimo campionato: Celtic Park, posti disponibili 60.832, media spettatori superiore a 57 mila; Ibrox Stadium, casa dei Rangers, posti disponibili 50.987, media spettatori vicina a 49.600. Tanto per capirci: la terza squadra scozzese per capienza è ancora una volta l’Aberdeen, con quasi ventiduemila posti a sedere. È chiaro che un baratro profondo e incolmabile divida le due squadre di Glasgow dal resto della Scozia: è dunque doverosa una riflessione sul loro status, divenuto ormai troppo grande per i discendenti di William Wallace.

Ha senso, allo stato dell’arte attuale, che Rangers e Celtic continuino a competere nella Scottish Premiership? In un mondo in cui il pallone rotola sempre più velocemente verso il futuro, in cui la visibilità è tutto, come sfruttare in maniera ottimale l’Old Firm e tutto ciò che ne consegue?

La risposta è una sola: fare iscrivere Rangers e Celtic alla Premier League. Se in partite del calibro di Celtic – Hamilton Academical o Rangers – Motherwell le due squadre di Glasgow fanno spesso registrare il tutto esaurito, immaginate cosa potrebbe capitare se esse dovessero affrontare tutti gli anni il Manchester United, il Liverpool o il Chelsea. Lo sviluppo sarebbe immediato, clamoroso per impatto mediatico, e al già comprovato fascino delle due si aggiungerebbe una visibilità di caratura mondiale, contribuendo così alla crescita sia economica che tecnica dei due club, nonché a una rinnovata competitività a livello internazionale.

Il percorso è stato già intrapreso da alcune squadre gallesi, quali lo Swansea e il Cardiff City, che, nonostante non siano paragonabili alle due squadre di Glasgow in termini di seguito e storia, hanno sempre disputato dignitosi campionati tanto di Premier League quanto di Championship. La partecipazione di Rangers e Celtic sarebbe quindi garante di ulteriore spettacolo: certo, per molti anni le due appena citate compagini non riuscirebbero a competere per la vittoria del campionato, tuttavia la costante crescita che la Premier League darebbe loro contribuirebbe a renderle squadre sempre più importanti, fino ad arrivare, un domani (perché no?), a sedersi sul trono del campionato inglese, in un assurdo scacco matto alla Regina.

Ad ogni buon conto, non solo Rangers e Celtic trarrebbero giovamento da questo loro avvicendarsi nella massima serie inglese: difatti, l’Olimpo delle migliori squadre britanniche si arricchirebbe di due ulteriori compagini, rendendo il calendario di Premier sempre più fitto di impegni prestigiosi. Le permutazioni, se si considerano le squadre di Manchester, di Liverpool, e soprattutto di Londra, basterebbero a riempire l’intera annata calcistica di match di assoluto rilievo.

Già in passato si parlò di questa eventualità, ma la federazione scozzese fece più di una resistenza per evitare la dipartita delle uniche due squadre che dal 1985 (anno dell’ultima vittoria di una terza compagine, l’Aberdeen) trainano la Scottish Premiership. Che sia giunto il momento di prendere una posizione drastica, e abbandonare definitivamente i confini della Scozia?

Alcuni, tuttavia, potrebbero perseverare nel loro scetticismo: come biasimarli, d’altronde. Complici dei risultati a livello internazionale non proprio meritevoli di essere ricordati, la Glasgow calcistica è pian piano finita nel dimenticatoio. Lontani sono i fasti dei Lisbon Lions, quella leggendaria squadra che, nel 1967, fu in grado di strappare la Coppa dei Campioni all’Inter di Herrera, schierando solo giocatori scozzesi provenienti dal vivaio e nati entro 48 km (!!!) dalla città di Glasgow. Pensateci: sarebbe come se le milanesi dovessero attingere, nella costruzione della squadra, dalle sole province di Milano, Monza e una piccola fetta di Lecco e Como. Quel tempo, nondimeno, sembra essere ormai perduto: un altro calcio di un’epoca in cui questo magnifico sport era dannatamente più semplice, dove non si vinceva in base al conto in banca. Oggi, che la liquidità è tutto, risulta ormai anacronistico perseverare in un campionato come quello scozzese: la Premier League è lì, a due passi, pronta ad accogliere i Bhoys e i Teddy Bears a braccia aperte.

Come precedentemente sottolineato, è assai probabile che, una volta approdate nel campionato inglese, le due compagini Glasvegiane non riescano ad imporsi, finendo per essere risucchiate nei primi anni nella lotta retrocessione. Se ciò è solo parzialmente vero per il Celtic, è assai probabile per i Rangers, visto l’attuale stato della rosa – a tal proposito, vi rimando all’ottimo articolo di La voce di Gianluca, nel quale si ripercorre la rinascita dei Rangers dall’oblio della terza divisione, e di cui copio di seguito il link: https://vivoperlei.calciomercato.com/articolo/la-ribalta-del-glasgow-rangers-tra-mercato-e-sogni-europei-

Che significato avrebbe dunque scambiare delle vittorie più che certe con il costante rischio di retrocedere nella serie cadetta? Ancora una volta, le considerazioni economico-sociali la fanno da padrona. Dato per certo il continuo supporto che le due squadre avrebbero anche in caso di retrocessione, visto che il campionato scozzese non è neanche lontanamente paragonabile allo spettacolo offerto dalla Championship, tutti abbiamo sotto gli occhi gli enormi introiti che club inglesi della serie cadetta sono in grado di ottenere ogni anno. Basti pensare alle spese che sta in questi giorni sostenendo l’Aston Villa, glorioso club inglese caduto da qualche anno nell’oblio, ma altresì pronto alla rinascita. L’esempio non è scelto a caso: i Villans hanno alle spalle una storia di tutto rispetto, proprio come le due compagini scozzesi, e si ritrovano in questo momento impantanate in una difficile ripartenza che tuttavia sembra essersi manifestata. Ad oggi, la squadra londinese ha speso la bellezza di quasi sessantacinque milioni per ricostruire la squadra: un’enormità se paragonata al denaro spendibile dai club nostrani appena saliti nella massima serie. Tutto ciò è reso possibile dal costante, continuo e numeroso seguito che squadre come l’Aston Villa hanno grazie alla crescita esponenziale che il calcio inglese ha avuto negli ultimi anni: è fuori da ogni dubbio che lo stesso capiterebbe a Celtic e Rangers, qualora decidessero di abbandonare i confini nazionali.

Queste rannuvolate valutazioni fatte da un insignificante appassionato di calcio come il sottoscritto, simpatizzante fin dalla tenera età dei biancoverdi del Celtic, approssimano numerosi concetti e ne escludono altri di importante rilevanza; con ogni probabilità non assisteremo mai al tanto agognato avvicendamento di Glasgow nel panorama calcistico inglese.  La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire: ora lasciate che concluda l’articolo e vada per un momento in “ufficio”.
D’altronde, tutti sanno che chi visse sperando