La meritocrazia non esiste. E ciò è bene, perché qualsiasi tentativo di avvicinarvisi, porterebbe esattamente all’opposto.

Suvvia, come raggiungerla? C’è chi non ha le capacità, e chi invece ha capacità adeguate, ma non ha esperienza. Chi ha esperienza, non ha la giovane età; chi è giovane, esperto e capace, non è simpatico. Ancora: chi è giovane, esperto, capace e ispira simpatia, è probabilmente una persona coerente. E ciò è male, perché la coerenza è per gli stolti e porta a una brutta fine – chiedere a Jon Snow per conferma, grazie.

Di tanto in tanto, però, un anello della catena viene meno.

Pazienza, si dirà. Non si può avere tutto dalla vita. Ciò nonostante bisogna coltivare il nostro giardino, diceva un tale.

Ci si accontenta, e si finisce con l’accettare il compromesso: se proprio bisogna scegliere, che salti il punto più futile della catena, sperando che reggerà. Sì, ma quale?

Le capacità, si dirà. Indubbio: senza capacità, non si va da nessuna parte. Obiezione vostro onore: avrei giusto quale esempio a portata di mano; si fidi, se ne può fare a meno.

Fammici pensare: l’esperienza! Qualche capello bianco fa bene. Ai miei tempi queste cose si faceva in altro modo. Qui una volta era tutta campagna e i treni arrivavano in orario, anche se non c’erano. Repertorio finito, come la carriera: in un battibaleno, scartata anche questa.

Ricapitolando: le capacità sono futili, l’esperienza va bene fintanto che tutto è campagna e i treni arrivano in orario; rimane la simpatia, e se c’è qualcosa che la matematica mi ha insegnato è il ragionamento per assurdo. Se ho davanti un elefante, una giraffa e una tigre e so per certo che l’elefante e la giraffa mangiano erba, probabilmente dalla tigre ci giro al largo. Coerente. Anzi no, mi hanno detto che non va bene esserlo, quindi vada per la tigre.

Perciò la simpatia, si diceva: bello essere simpatici, tutti vogliono accompagnarti a prendere il caffè. Vada per la simpatia: eppure, nessuno ti prende sul serio. Ah! Eccolo! Il mio giullare preferito! Cantami uno stornello, caro. Balla sulla sedia, e attento a non spezzarti l’osso del collo.

All’osso del collo ci tengo, meglio essere antipatici ma camminare con la testa alta. O, più pragmaticamente, con la testa.

Nelle puntate precedenti: niente simpatia, niente capacità, giammai avere esperienza. Sei giovane? Sciocco, senza esperienza dove vuoi andare? Non ti degno neanche di uno sguardo, mi stai pure antipatico: di sicuro sei un incapace, dato che con la mia esperienza e grazie alle mie capacità sono in grado di riconoscere un pesce che si farebbe spolpare vivo da una tigre – che poi, le tigri mangiano i pesci? Chi lo sa, roba per zoologi.

Eppure, un sistema deve pur esserci. Come fare per entrare nelle grazie di qualcuno, se non servono capacità, esperienza, gioventù e simpatia? Mumble mumble, direbbero i fumettisti; fammici pensare, direi io.

Forse la chiave è la simpatia: bando alle barzellette però, il tale che entra nel caffè e fa splash me lo tengo di riserva. Non bisogna avere simpatia, ma avere le giuste simpatie! Raccomandazione!

La raccomandazione, questa è buona! Sì, lo è veramente, se non consideri che potresti risultare inviso a praticamente ogni persona con la quale ti relazionerai nella tua vita; tuttavia chi se ne frega, tanto c’è il denaro e con quello posso comprarmi le simpatie di chiunque. E poi essere simpatici non va bene, è roba da incoerenti: per stare simpatici a tutti bisogna per forza esserlo; aspetta, mi hanno detto che però l’incoerenza è un bene. Non ci capisco più nulla.

Usciamo dall’impasse. Facciamo che delle simpatie altrui ci preoccuperemo dopo: intanto, fammi sfruttare la mia raccomandazione.

Sono forse impazzito? È forse questa una supercazzola con i controcosiddetti?
Si legga dove viene pubblicato questo articolo o presunto tale: è una pagina di calcio! Perciò qualcosa devo pure inventarmi per collegare il tutto al pallone.

Calciatori raccomandati senza capacità, la giusta esperienza e molto poco simpattici (letto alla Moratti)? No, ce ne sono troppi. Qualcuno l’avrà già fatto, probabilmente.

Allenatori! Ecco, questa sì. Allenatori con poche capacità ma che, grazie alle giuste conoscenze, sono arrivati in alto, quindi scesi nuovamente perché si sono dimostrati coerentemente incapaci. Doppio scacco matto.

Deciso: si parlerà di quei calciatori divenuti da poco allenatori, investiti fin da subito di grandi panchine, che hanno fallito miseramente, e che tuttavia continuano ad essere considerati e ritenuti migliori di chi la gavetta l’ha fatta. Che mondo noioso sarebbe senza Nutella con la Meritocrazia: sia dato ogni merito a Dio che ce l’ha evitata.

 

Filippo Inzaghi
La carriera da calciatori di Filippo Inzaghi detto Pippo non necessita certo di essere ripercorsa da un mediocre appassionato di calcio come il sottoscritto. Riconosciuto a livello internazionali come uno dei migliori interpreti del ruolo di attaccante, ha come molti suoi colleghi intrapreso la carriera da allenatore nel 2012, quando il club di cui ha contribuito a scrivere la storia ha deciso di affidargli gli allievi nazionali.

Fintanto che il Superpippo nazionale ha curato i giovani del Milan, nulla da dire; tant’è che la vittoria del Torneo di Viareggio nel 2014 gli è valsa la promozione alla guida della prima squadra, che ha guidato a partire dal giugno dello stesso anno.

Nonostante un inizio promettente contro la Lazio, la squadra gli sfugge presto di mano: in 25 apparizioni in campionato, i rossoneri sotto la sua guida non riescono a portare a casa i tre punti. Il risultato è un deludente decimo posto che porta al suo esonero dodici mesi dopo l’approdo a San Siro. La storia del calciatore, in questo caso, gli garantisce la possibilità di guidare i rossoneri lungo tutta la stagione, a dispetto di costanti insinuazioni circa il suo esonero che si susseguono l’un l’altra lungo tutto il campionato.

Risulta dunque chiaro, se non cristallino, che se al suo posto ci fosse stato un altro malcapitato allenatore, le cose sarebbero state certamente diverse. A pagarne le conseguenze sono ancora una volta tutti quei tecnici i quali, ben più preparati ed esperti di lui, non hanno mai e né manco avranno nella loro vita l’occasione di guidare una squadra dal blasone sì elevato come il Milan.

L’allontanamento dai rossoneri segna in maniera indelebile la carriera di Inzaghi. Decide successivamente di ripartire dalla C, centrando fin dal primo anno l’impresa della qualificazione alla serie cadetta con il Venezia, il quale, con una nuova dirigenza che lavora in prospettiva riempiendo i tifosi di importanti aspettative, risulta più che soddisfatta del suo operato.

Superpippo sembra aver trovato la sua sistemazione ideale e con essa la sua ottima dimensione: allenatore capace di far crescere a modo le giovani speranze del gioco del pallone. La sua conferma alla guida del Venezia sembra ovvia: eppure, ecco la nuova occasione per sfondare nel calcio della massima serie, alla guida del Bologna.

Qui la sua stagione è un disastro: gli emiliani, nonostante posseggano un organico per una salvezza tranquilla e qualcosina in più, aleggiano costantemente in zona retrocessione, piombandoci più volte e quasi in maniera definitiva. Il credito nei suoi confronti, tuttavia, non sembra mai esaurirsi: tant’è che un suo ex compagno di squadra, Clarence Seedorf – un altro che era decisamente meglio col pallone tra i piedi, piuttosto che seduto in panchina – dirà di lui:

“Vorrei avere la sua fortuna (di Inzaghi, ndr): ovvero quella di restare in panchina anche se perde”

In una singola frase, l’olandese riassume appieno la storia da manager dell’ex attaccante del Milan: nonostante gli insuccessi si susseguano copiosi e inesorabili, Inzaghi rimane saldamente alla guida delle sue squadre, le quali risultano svuotate di ogni idea di gioco nonché della proverbiale cattiveria agonistica che tanto ha contribuito alla creazione del suo mito ai tempi del calcio giocato.

Ciò che più impressiona, difatti, non è tanto l’assuefazione alla sconfitta che si respira nelle squadre che allena (e scusate se è poco): bensì la mancanza di qualsiasi stimolo nei suoi giocatori che possa sbloccarli mentalmente e riuscire a capovolgere le sorti.

Ad ogni buon conto, il credito apparentemente illimitato di cui gode si esaurisce definitivamente in occasione dell’imbarazzante prestazione dei suoi contro il Frosinone: in casa, i Felsinei riescono nella particolare impresa di perdere per 0 reti a 4 contro i diretti concorrenti per la salvezza. L’ambiente è visibilmente depresso, e solo l’avvicendamento in panchina di Sinisa Mihajlovic riuscirà a capovolgere le sorti del club emiliano.

Filippo Inzaghi è una delle testimonianze più nitide che, nel calcio, un grande giocatore non diventa per forza di cose un grande allenatore, nonostante la volontà sia quella di ripetere i fasti del calcio giocato passando dall’altra parte del muro. Il concetto viene ulteriormente – se mai ce ne fosse bisogno – rafforzato da quanto è stato fin qui in grado di fare suo fratello Simone, che, catapultato in un’altra grande squadra di serie A quale la Lazio, ha dato fin da subito un’impronta ben marcata: dove il pallone che rotolava non riusciva, sono arrivate lavagnette e conetti.


Vincenzo Montella
Mi confuterò da solo: dall’aeroplanino c’è solo da imparare. Deve avere qualche segreto, qualche dote nascosta che ai più non è data conoscere. Sarebbe altrimenti inspiegabile la carriera da allenatore che fin qui ha costruito l’ex romanista, vincitore di un campionato in maglia giallorossa: Roma, Fiorentina, Sampdoria, Milan e Siviglia sono solo alcune delle squadre che hanno puntato su di lui per la buona resa della stagione, e in tutti i casi il risultato è stato un enorme buco nell’acqua.

Ma andiamo con ordine.
Dapprima, l’esperienza alla guida della Roma: come Pippo Inzaghi, anche Montella si ritrova quasi per caso alla guida della prima squadra dopo aver trascorso i primi anni alla guida dei Giovanissimi – sì, avete capito bene. Poco conta che colleghi più qualificati quali De Rossi senior abbiano dedicato la propria vita alla crescita dei giovani giallorossi, contribuendo a creare una solida cantera da cui spesso e volentieri i “grandi” hanno pescato (ultimo fra tutti: Luca Pellegrini, recentemente passato alla Juventus); la scelta è ricaduta sull’ex attaccante, e si è rivelata fin da subito sbagliata.
Rileva Claudio Ranieri a metà anno e conduce la Roma al sesto posto in campionato; non un grandissimo risultato, che va però pesato per solo mezzo anno.
A giugno, i giallorossi decidono di scaricarlo sostituendolo con Luis Enrique. Vincenzo passa così alla guida del Catania, con la quale fa discretamente bene: ottiene il record di punti per la squadra siciliana in serie A (48), conducendola a una tranquilla e serena salvezza.
L’ottimo percorso disegnato con gli Etnei gli vale l’occasione di guidare per la prima volta in carriera una importante squadra di serie A fin dalla preparazione estiva: è la Fiorentina, che decide di puntare su di lui per scrivere nuovamente il suo nome tra le big del campionato nostrano.

Come già successo con il Catania, anche qui Montella riesce a plasmare una squadra di ottimo livello incentrata su cardini decisamente rilevanti quali Borja Valero e Stevan Jovetic. Nelle due stagioni vissute all’ombra della Cupola del Brunelleschi, il tecnico campano raccoglie due quarti posti e degli ottimi percorsi in Coppa Italia, culminati nella finale persa contro il Napoli.

Nel novembre del 2015 passa alla Sampdoria, rilevando Walter Zenga – un altro: ‘a ridaje! La società blucerchiata mette nelle mani di Montella una squadra di tutto rispetto, che tuttavia si salva per il rotto della cuffia arrivando, dopo sei mesi di agonia, al quindicesimo posto in campionato. È l’inizio del tracollo montelliano, aiutato senza ombra di dubbio dalla mal riposta fiducia di molti club nelle sue qualità manageriali.

Ancora una volta, è il Milan a farne le spese. La prima annata non sarebbe neanche tanto male: si porta a casa una Supercoppa Italiana interrompendo il monopolio juventino e raggiunge la qualificazione all’Europa League; ottenuta la matematica certezza, viene portato in trionfo dai suoi giocatori, e sembra quel giorno la definitiva consacrazione del tecnico campano.

Da qui in poi, complici le aspettative troppo alte del club rossonero che hanno fagocitato un allenatore dopo l’altro, il buio totale. Diventa una figura quasi onomatopeica: passa infatti alla cronaca per le fantasiose scuse che accampa in conferenza stampa al fine di giustificare il suo fallimento, e soprattutto per le opposte reazioni che manifesta durante le interviste; nella sconfitta, sorride, ostentando felicità palesemente isterica; nella vittoria, si fa serio e corrucciato, senza mai risultare convincente agli occhi del tifoso.

Esonerato a fine novembre, viene in maniera ora sì veramente inspiegabile chiamato alla guida del Siviglia: una squadra che viaggia sulle ali dell’entusiasmo in Europa, essendo ancora in lotta per la Champions League e per un posto nella stessa nella stagione successiva. L’inizio fa ricredere molti tifosi rossoneri: vuoi vedere che stavolta abbiamo toppato? I dubbi crescono dopo che gli andalusi riescono nell’impresa di eliminare il Manchester United dello Special One agli ottavi; l’agitazione si fa montante, da più parti sorgono vedove del tecnico dalle parti di Milano che incalzano amici e conoscenti: Alla fine dovevamo tenercelo, visto?

La risposta è un secco, clamoroso, altisonante, irremovibile, NO. Viene cacciato dalla disperazione a fine aprile, prematuramente rispetto alla fine del campionato.

Quando sembra che le occasioni per mettersi in mostra e arrecare ulteriori danni in giro per l’Europa siano esaurite, il clamoroso colpo di coda: viene richiamato alla Fiorentina, orfana di Pioli. Ed è qui che si manifesta tutto il suo genio: riesce nella straordinaria – non si può definire altrimenti – impresa di portare la Fiorentina, fino al giorno del suo arrivo in ottica Europa, alle soglie della zona retrocessione, salvandosi solo all’ultima giornata grazie non a un biscottone, ma all’intero pacchetto.

Ma non è finita qui, perché Vincenzone, tra un sorriso smagliante post-sconfitta – delle vittorie non si può sapere, dato che non risulta in grado di portare a casa i tre punti in nessuna delle uscite – e una arrabattata spiegazione al momento no del club gigliato, stupisce ancora tutti venendo riconfermato alla guida dei viola. Chissà cosa avrà detto a Commisso: probabilmente l’avrà fissato e convinto col suo sguardo magnetico.
Sarà interessante vedere cosa combinerà quest’anno il Vincenzone nazionale. Una cosa è certa: se ne vedranno delle bellissime.


Ivan Juric
Seppure di più lieve entità rispetto ai suoi più titolati colleghi, il fenomeno Juric ha anch’esso dell’incredibile.

Ciò che fin qui ha accumunato gli allenatori citati è un impatto notevole col mondo del cosiddetto calcio che conta: alla prima occasione, costoro sono parsi ottimamente preparati ed in grado di gestire situazioni complicate, portando le rispettive squadre ad ottenere egregi risultati.

Lo stesso vale per Ivan Juric: la promozione col Crotone verrà ricordata tra i calabresi come una delle gioie più grandi dei tempi recenti. Da una squadra rossoblu a un’altra, il passo è breve: il tecnico serbo, l’anno successivo, va a sedersi sulla panchina della squadra che l’ha reso grande, vale a dire il Genoa.

Nei confronti di Juric è però doveroso aprire una parentesi. Mentre per Pippo e l’Aeroplanino Montella è sembrata palese la mancanza di motivazioni e grinta, tanto nei giocatori quanto nei personaggi stessi, Juric ha vissuto la fallimentare stagione del club ligure con grande afflato e partecipazione. Il dolore dei tifosi, dei calciatori e dell’ambiente genoano sembravano condensarsi e pesare congiuntamente sulle povere spalle del tecnico, il quale, probabilmente schiacciato dalla troppa pressione, ha finito col cedervi.

L’affetto nutrito dalla città verso la sua persona gli vale però una seconda occasione, nell’annata successiva: rileva l’ottimo Ballardini che, inspiegabilmente, viene esonerato nonostante il Genoa sia in quelle giornate in lotta per un posto in Europa. La Legislazione Juric II è un totale, devastante, catastrofico, fallimento, che la società rossoblu si porterà dietro fino a fine stagione, quando il biscottone grifone-gigliato permetterà una salvezza per il rotto della cuffia.


Potrei andare avanti per un mese intero elencando tutti coloro che, una volta appese le scarpette al chiodo, hanno intrapreso la carriera di allenatore, dimostrando di non avere le capacità adatte a ricoprire questo ruolo. Preferisco tuttavia fermarmi qui: il concetto mi pare abbastanza chiaro.
Non basta essere stati grandi giocatori per diventare grandi allenatori. I primi a doverlo capire non sono i calciatori stessi, bensì le società, che puntano ostinatamente su chi il campo l’ha sì calcato, ma in vesti profondamente diverse.

Ci sono, ovviamente, dovute eccezioni: Antonio Conte, per esempio; Carlo Ancelotti, tanto per citarne due che attualmente siedono su panchine italiane e hanno un più che discreto passato da calciatori. Travalicando i confini nazionali, la mente viaggia subito a Josep Guardiola, importante centrocampista sull’asse Brescia-Barcellona prima, autentico mostro sacro della panchina poi; viaggiando nel tempo e rimanendo sempre nei pressi della Ciutat, come non ricordarsi del più grande, Johan Cruijff.

È indubbio, però, che tra i più grandi allenatori della storia si annoverino un buon numero di tecnici che non hanno mai giocato ad alti livelli. Arrigo Sacchi, il primo fra tutti; il beneamato José Mourinho; il neo-juventino Maurizio Sarri, tanto per citarne tre. Costoro hanno avuto la fortuna di essere appoggiati da presidenti e direttori lungimiranti, che, prima di guardare al sentimento, hanno preteso il meglio per il loro club.

A tal proposito, vorrei chiudere con un appello alla UEFA: è necessario rivedere le modalità di accesso ai patentini per allenatori, agevolando l’accesso anche a chi di calcio ne capisce e tuttavia non ha mai calcato i grandi palcoscenici.

Perché, per innovarsi, bisogna vedere le cose da un’altra prospettiva; e spesso, partire dal basso è il metodo migliore.