"Diz-lhe numa prece que ela regresse 

Porque eu não posso mais sofrer 

Chega de saudade, a realidade é que sem ela

Não há paz, não há beleza, é só tristeza"

Joao Gilberto - Chega de Saudade

 

15 luglio 2007. Sotto il sole di Maracaibo, nella splendida cornice dell'Estadio José Encarnación Romero (o, come piace chiamarlo ai venezuelani, El Pachencho), Brasile e Argentina sono a contendersi la Copa America.

L'albiceleste arriva in finale da favoritissima: mai come quel giorno l'ago della bilancia sembra pendere verso Riquelme e compagni. Fino a quel 15 luglio, gli argentini hanno arato la competizione, proponendo un gioco trascendentale: punteggio pieno nel raggruppamento dopo aver rifilato quattro schiaffoni a Colombia e Stati Uniti e battuto di misura il Paraguay in un match che per la Seleccion ha le sembianze di un allenamento defaticante; quattro ulteriori sberle al Perù nei quarti; solo tre al Messico in semifinale. La competizione è dominata.

Il Brasile, dal canto suo, non se la passa così bene. Ha faticato e non poco a passare il girone, dove è arrivato addirittura alle spalle del Messico. Tuttavia, ai quarti si vede per la prima volta il futbol bailado brasiliano: 6-1 al Cile e tanti saluti alla roja. In semifinale, invece, sono necessari i rigori per avere ragione dell'Uruguay, dopo il due pari dei tempi regolamentari.

Al di là dei risultati, la rosa delle due selezioni è profondamente diversa in qualità e profondità. L'Argentina può mettersi di schierare autentici mostri sacri quali Zanetti, Heinze, Veron, Mascherano, Cambiasso, nonché il tridente delle meraviglie: Riquelme, Messi, Tevez. Alla Seleçao tocca rispondere con Julio Baptista, Robinho e Vagner Love: non esattamente la stessa cosa.

Come spesso accade agli argentini, quando le stelle sembrano allinearsi e finalmente decise a premiarli, essi piombano in uno status di ansiosa nevrosi che li blocca mentalmente e fisicamente.

Il risultato è un netto 3 a 0 a favore del Brasile, che alza per l'ottava volta la Copa America.
Perché la finale del 2007 è però così importante?

Essa segna una profonda demarcazione nella storia del calcio sudamericano. Da allora, si sono susseguite altre quattro Copa America, e in nessuna di queste si è ripetuto il Superclasico quale ultimo atto della competizione. Non solo: il Brasile non è più riuscito a oltrepassare lo scoglio dei quarti fino a quest'anno, mentre l'Argentina è arrivata per due volte in finale senza riuscire ad alzare il trofeo.

In questi dodici anni, le due superpotenze latinoamericane sembrano aver perso per strada il loro credo. Di ottimi, eccellenti giocatori ne sono sempre state piene; tuttavia, nessuna guida tecnica è riuscita a trovare la quadra per esaltare a dovere l'organico a disposizione e sbloccarlo dal punto di vista mentale.

Non è in altro modo spiegabile il percorso fin qui intrapreso dall'Albiceleste e dalla Seleçao. La prima vive da allora uno psicodramma molto juventino, avendo perso tre finali di Copa America e un Mondiale; della seconda non v'è traccia tra le squadre migliori al mondo. 

In mezzo a tante difficoltà, le altre pretendenti hanno cominciato ad alzare la voce: Uruguay, Cile, Colombia, Paraguay e Perù si sono proposte quali alternative più che credibili, risultando vincenti con la Celeste nel 2011 e con il Cile nelle ultime due edizioni della coppa continentale.

Lo scotto che il calcio sudamericano ha dovuto pagare negli anni passati è però la perdita di credibilità agli occhi del mondo. A fine anni novanta e nei primordi del XXI secolo, Argentina e Brasile venivano visti come modelli ideali a cui aspirare: le due selezioni guardavano l'Europa dall'alto verso il basso, imponendo il loro gioco a simbolo universalmente riconosciuto.
Eppure, in mezzo alla lunga depressione lunga ormai da dodici anni, brasiliani e argentini ebbero un sussulto di orgoglio nel mondiale carioca del 2014. Entrambe le selezioni arrivarono ad un passo dalla vittoria: nondimeno, la Germania pareva agli occhi di tutti un gradino al di sopra delle altre nazionali, e, come accade raramente nel calcio, il pronostico venne infine rispettato.

La partita di stasera, tuttavia, può essere la svolta. Chi disputerà la finale lo farà da favorita? Nella maniera più assoluta NO, perché il Cile visto fin qui è una squadra assai temibile e pronta a riscattare la mancata partecipazione al Mondiale 2018, e tra le quattro superstiti è sembrata la squadra più convincente. Ma chi arriverà a giocarsi il trofeo lo farà con la consapevolezza di aver superato in semifinale il proprio Cthulhu, traendo da tale vittoria l'energia e la carica necessaria per giocare nel migliore dei modi la finale.

E' in questa cornice mistica che i destini del Brasile e dell'Argentina si incrociano ancora una volta. La vicinanza nella distanza. Due filosofie di vita, così vicine eppure così diverse. Destini paralleli, indipendenti e al contempo legati: non può esistere Brasile senza Argentina, e viceversa. Come se Uruguay, Paraguay e Bolivia siano state messe lì apposta, per segnare una differenza che i soli 1.200 km di confine non chiarirebbero. 

Tutto questo però non basta. Perché se un dio del pallone esiste, non ho dubbi sia sudamericano. Solo un'entità superiore può scegliere di scrivere una storia così affascinante e al contempo avere la malizia di inscenare gli ultimi due spettacoli nei due palcoscenici più iconici del paese lusofono: semifinale al Mineirao, finale al Maracana. Due stadi entrati nella leggenda, accumunati da storiche debacle delle due compagini: il Maracanazo e il Mineirazo per il Brasile, la sconfitta nella finale 2014 per l'Argentina.

Resta solo da attendere, perché inesorabile il verdetto non tarderà ad arrivare. E, solo allora, scopriremo se sarà beleza o belleza, stando attenti a che non sia dolor y tristeza.