5 marzo 2017, la notizia prorompe con fragore dai telegiornali e radiogiornali di tutto il mondo: il campionato di calcio argentino non parte. Cosa voglia dire questo lo possiamo comprendere solo se immaginiamo cosa accadrebbe Italia in una situazione del genere e se consideriamo che, in Argentina, il calcio ha una valenza sociale ed economica ancora maggiore che in Italia. Si tratta, però, di una crisi che ha radici lontane e motivi extracalcistici: ovviamente economici, ma non solo. Già nel 2009 il governo del paese sudamericano rescisse unilateralmente il contratto per la trasmissione delle partite dei campionati professionistici, detenuto dalla TCS, una società nata dall’unione fra la TyC, una società televisiva sportiva Argentina esistente sin dal 1982 e il Gruppo Clarin, il maggior gruppo media argentino, fondato da Roberto Noble come giornale negli anni cinquanta e divenuto Gruppo Multimedia nel 1999. Oltre alla famiglia Noble, che ereditava la società fondata dall’ex politico socialista argentino, del gruppo Clarin fa parte Hector Magnetto, un personaggio molto discusso in Argentina sin dagli anni settanta, che subì anche processi per aver utilizzato i propri appoggi governativi al fine di ottenere pressioni verso nemici personali e della società, e Goldman Sachs. La rescissione avvenne, sulla carta, per la necessità delle società di calcio di coprire le proprie spese e per una mancanza di volontà da parte delle televisioni di riconsiderare, nel 2009, un contratto sottoscritto nel 1992, quindi oltre 15 anni prima, con condizioni completamente differenti rispetto a quanto sviluppatosi negli anni successivi. Nell’agosto del 2009 il Governo argentino prese direttamente in mano la gestione dei diritti sportivi decidendo per la trasmissione in chiaro delle partite. Si era in un periodo di piena crisi economico politica e, quindi, la mossa venne dettata anche dal bisogno dell’allora Presidente Kirchner di cercare un più vasto consenso popolare. Nel frattempo, però, argentina è sprofondata in una crisi economica senza precedenti: nel 2014 si dava per esistente un’inflazione pari al 27% a fronte di valori dichiarati dallo stato del 15% e un aumento di pensioni e stipendi del 55% e del 33%. Ma il 2014, nonostante anni di crescita economica al 5,1%, vide il default dichiarato dallo stato argentino e una crescita pari a circa lo 0,4%. Il risultato è una situazione in tutto e per tutto simile a quella del 2001, con un economia che perde il 2%, l’inflazione al 35%, la disoccupazione al 10%, e una situazione in cui un terzo delle famiglie del paese non riesce ad arrivare alla fine del mese. Il Presidente Macrì, casualmente presidente del Boca prima di essere eletto, si è trovato fra le mani una situazione esplosiva ed ha iniziato una politica di liberalizzazione, con incentivi a esportare, eliminando le trattenute su esportazioni di grano e minerali, con una perdita di centinaia di milioni di dollari, che ha portato all’impossibilità di mantenere una struttura sociale e un sistema economico pubblico. Il risultato è stata l’immediata perdita di 33000 posti di lavoro statali e di oltre 150000 nell’indotto privato. Anche in ambito di servizi essenziali si parla di aumenti fino al 500% su acqua, gas, elettricità, trasporti, con un inflazione stimata al 7% circa, ma non calcolabile perché il governo ha sospeso l’attività degli istituti di statistica. Si stima che la povertà sia salita al 34,5%. Senza andare oltre, in un’analisi che seve solo per comprendere come il problema calcio, in Argentina, sia solo la punta di un Iceberg enorme che vaga nell’oceano della finanza mondiale in attesa di affondare qualcuno. La crisi economica che attanaglia il paese ha portato all’impossibilità, da parte del governo, di onorare i contratti con le televisioni. Un versamento di 22 milioni di euro non ha portato a nulla e la situazione è divenuta esplosiva, con giocatori delle serie minori che non riescono ad arrivare a fine mese, e giocatori delle serie maggiori che accampano diritti per cifre che, in una situazione di povertà diffusa, sembrano uno schiaffo alla popolazione. In questo contesto un rinvio di un mese dell’inizio dei campionati ha portato ad un nulla di fatto e, oggi, lo scontro è divenuto durissimo, con i giocatori che rifiutano di scendere in campo e le società che minacciano di schierare calciatori non professionisti. In tutto questo si inserisce la notizia di qualche giorno fa che vede la FIFA sanzionare la Federcalcio Argentina per l’ingerenza dello Stato nella nomina del Presidente dell’AFA. A questo punto appare sempre più eclatante come ci si trovi davanti ad una crisi economica, sociale e politica tale da non permettere neppure di salvaguardare la più classica delle valvole di sfogo per la popolazione. Un campionato argentino che non parte e una nazionale bloccata dalla FIFA sono una miccia accesa per una bomba in procinto di esplodere. Solo che, come nel 2001, l’esplosione della bomba argentina avrà, certamente, ripercussioni altrove. Nel 2001 noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle, con i bond e con la crisi Parmalat, quegli effetti, tanto sul sistema bancario che nel pianeta calcio, con la scomparsa di quel Parma Calcio che, per anni, era stata la seconda forza calcistica nazionale. Come un virus quella crisi economica si diffuse in tutto il globo e, qualche anno dopo, da entrambe le sponde dell’atlantico e del Pacifico, si parlava di crisi globale. Speriamo che oggi quest’avviso non sia sottovalutato come quello di allora. E non lo sia, in primis, dal mondo del calcio, che vive in una bolla in procinto di esplodere, bolla che, se in Italia inizia a perdere aria sempre più spesso, in Argentina è esplosa fragorosamente in questo 2017 che molti dipingono in nero per la finanza globale. E che una crisi del genere possa investire un movimento calcistico come quello argentino, con stadi pieni e giocatori venduti all’estero in quantità industriale, tutti di alto livello, non c’è da stare allegri a pensare cosa possa accadere ad un campionato che ha gli stadi vuoti e non esporta all’estero campioni ma giocatori mediocri.