No to racism”. È questo il famosissimo slogan della Uefa che negli ultimi anni si è “infilato” praticamente ovunque, tra europei, Coppa del Mondo, Champions League ed Europea League, senza contare anche altre competizioni secondarie come la Supercoppa Europea. “No al razzismo”, ma siamo sicuri che chi ci inculca la predica, poi mantenga una morale in linea con le sue parole?  

Due pesi due misure

La Uefa, da anni si vanta di condurre una lotta al razzismo pubblicizzata in tutte le salse, sopratutto grazie a personaggi d’eccezione come Messi, Cristiano Ronaldo, Modric e altri giocatori di fama mondiale. Ma non solo, perché oltre agli slogan pubblicitari, la Uefa “controlla” in maniera vigile tutta la situazione politica che ruota attorno al mondo del pallone. Perchè che si voglia o meno, la politica appartiene al calcio e il calcio appartiene alla politica. Un esempio perfetto è quello dei preliminari di Champions League dell’agosto 2016: il Celtic Glasgow in quell’occasione ha affrontato – e battuto – l’Hapoel Be’er Sheva.
Scozzesi contro israeliani. Nella gara di andata, giocatasi al Celtic Park, i tifosi appartenenti al tifo organizzato del Celtic Glasgow hanno riempito il loro intero settore con bandiere della Palestina, violando l’articolo 16 della Uefa sugli striscioni che è vietato introdurre negli stadi, e beccandosi una multa molto salata.
In realtà la squadra scozzese rischiò molto di più di una semplice multa, visto che per qualche settimana si parlò anche di una possibile esclusione dalla competizione, ma la vera domanda da porci è: qual è il confine tra libertà di espressione e censura? Perché una organizzazione come la Uefa, dovrebbe ritenere giusto multare qualcuno che non sta facendo altro che ricordare al mondo che da qualche parte si sta combattendo una guerra ingiustificata, che chiamare guerra sarebbe anche sbagliato a dir la verità. Perchè si tratta di una vera e propria invasione.
Questa domanda ha però dei precedenti, anzi un precedente. E riguarda proprio il Celtic.
Nella gara di Champions League della stagione 2012-2013 infatti, in occasione della partita tra Ajax e Celtic Glasgow, gli olandesi mostrarono uno striscione con la scritta “Fenian Bastards”, dove il sostantivo Fenian sta ad indicare il nazionalismo irlandese cattolico. Come già detto, il calcio appartiene alla politica e la politica appartiene al calcio; gli autori del gesto vennero multati di 25.000 euro, e nella gara di ritorno si registrarono scontri tra le due tifoserie. Un modo poco remunerativo – di certo non per le tasche – per combattere il razzismo, ma meglio di niente. Il problema sorge quando prima si viola in maniera ingiustificata la libertà d’espressione – come nel caso delle bandiere palestinesi – e poi, quando la Uefa decide di rimanere a guardare, attuando la politica de “due pesi, due misure”.

La Turchia di Erdogan

Prima di parlare dell’ultimo caso, bisognerebbe prima mettere per inciso un piccolo dettaglio: non si può parlare di razzismo solo quando c’è da punire e condannare qualche ululato. Il razzismo è un problema che spesso tendiamo a sottovalutare e che coinvolge qualsiasi gesto discriminatorio, fisico o morale che sia. L’ultimo accaduto su un campo di calcio è di appena qualche ora fa, e la Uefa è rimasta a guardare. Per spiegare quello che è successo, dobbiamo fare un piccolo salto indietro, a qualche giorno fa.
In questa settimana di pausa dai maggiori campionati, si stanno giocando le qualificazioni per i prossimi europei, e nella partita dello scorso venerdì contro l’Albania, i giocatori Turchi, dopo aver vinto al novantesimo minuto grazie a un goal di Cenk Tosun, hanno festeggiato tutti insieme davanti alle telecamere, con il saluto militare. Una semplice esultanza diranno alcuni, e invece no, perché proprio in questi giorni, la Turchia di Erdogan – che ricordiamo è a pieno titolo un dittatore, e non esistono dittatori “buoni” e dittatori “cattivi” - sta bombardando i curdi nel nord-est della Siria, per appropriarsi del territorio. Non si tratta quindi di una semplice esultanza, ma di un vero e proprio gesto discriminatorio, che ha fatto il giro del mondo e che nessuno – a parte i turchi, ma non tutti, come ad esempio Ernes Kanter – ha apprezzato. E la Uefa, invece di punire e condannare immediatamente un gesto simile, è rimasta a guardare. Ed è rimasta a guardare anche ieri, quando nella partita contro la Francia, terminata uno a uno, i calciatori turchi hanno ripetuto lo stesso identico gesto a fine partita.
Perchè ai piani alti sono rimasti a guardare? Dove sono finite tutte quelle belle parole del presidente FIFA Gianni Infantino in occasione della cerimonia di premiazione del “The Best FIFA Awards” dopo il “caso Dalbert”? E sopratutto, perché non si è mosso nemmeno un dito, quando invece nella stessa settimana la Lazio è stata punita con una multa – l’ennesima ci verrebbe da dire, ma questa è un’altra storia – per dei “presunti” cori razzisti nella partita di Europa League tra Lazio e Rennes?
Decidere quando schierarsi e quando invece rimanere in silenzio, e soprattutto a favore di chi o cosa, non è sicuramente una buona mossa per acquisire credibilità.
Ma la verità, forse, è che quando a sbagliare è un nemico “scomodo”, allora si può chiudere un occhio.
Anzi, due, come in questo caso.