La generazione a cavallo tra gli anni '90 e '00 ha smesso di credere nei supereroi e ha iniziato a credere nei superatleti, esaltati da gesta e prestazioni sempre più eclatanti. Grazie anche a Marco Pantani.
Guardandoli dall’alto in basso, calciatori, ciclisti, podisti e chi più ne ha più ne metta, si sono incarnati nell’ideale del superuomo, che tutto può tranne che sbagliare. Ed è proprio per questo che quando a “cadere” sono loro, il rumore è più assordante del dovuto: ci si stupisce talmente tanto dei loro fallimenti, da arrivare a giudicarli sul piano morale, come se poter sbagliare sia diventato un lusso concesso solo ai comuni mortali.
L’esempio più importante è quello di Marco Pantani, capace di salire da solo alla ribalta del ciclismo nazionale e mondiale, e di morire – secondo la magistratura – per via di un’overdose letale di farmaci e cocaina, in un hotel di Rimini nel lontano 15 febbraio 2004, dimenticato da tutti.

Romagna mia
Cesena, terra di mare ma anche di montagne. Cesena, terra di salumi pregiati, ma anche di piadine. Cesena, terra natia di uomini di calcio come Azeglio Vicini e Arrigo Sacchi, entrambi ex C.T. della Nazionale, ma anche di ciclisti passati alla storia, come Marco Pantani.
Quel Marco che indirizzato nel mondo del ciclismo dal nonno Sotero, in pochissimo tempo si è rivelato un vero e proprio predestinato: la prima vittoria nelle “Case Castagnoli di Cesena” il 22 aprile 1984, un terzo posto al Giro d’Italia dilettanti nel 1990, e poi il tanto atteso salto nel mondo del professionismo, nel 1992 con la Carrera Jeans. Quel Marco che anche dopo essere salito sul tetto del mondo, ai paradisi fiscali come Montecarlo e le Isole Cayaman, ha continuato a preferire la sua Cesenatico. Perchè Marco aveva bisogno di posti veri, autentici.

Oggi solo pensarlo sarebbe utopistico, ma un tempo, ovvero quando Pantani era entrato nel vivo della sua carriera, nel nostro paese il ciclismo riempiva le prime pagine de La Gazzetta dello Sport; il mondo delle due ruote era tornato ad avere un eroe nazionale, come furono Bartali e Coppi. Nell’epoca delle “sette sorelle” della Serie A, della romane capaci di spartirsi due scudetti, il ciclismo aveva (ri)trovato una copertina.
Un eroe che per qualche anno era riuscito nell’impresa di ridonare lustro e prestigio a uno sport bellissimo, un eroe che a distanza di quasi vent’anni, ancora manca a questo sport.

L’ante litteram dei super atleti
Quando parliamo di Pantani, c’è un aspetto di lui che spesso tendiamo a non considerare: oltre a essere stato un indiscutibile campione (a parlare sono vittorie e record, come quello europeo del Mount-Vantoux che ancora detiene), il “Pirata” possiamo benissimo considerarlo come l’atleta ante litteram della nuova generazione, ovvero quella dei superatleti. Il corridore romagnolo infatti, incarna alla perfezione tutte quelle caratteristiche che adesso abbiamo iniziato a individuare nei vari Lebron James, Usain Bolt, Tom Brady, Cristiano Ronaldo e via dicendo.
Atleti che hanno iniziato a dominare i loro relativi sport di competenza fin da ragazzi e che nonostante l’avanzare delle primavere (36 anni LeBron e Cristiano Ronaldo; 34 anni Bolt e 43 anni Brady) continuano a comandare, proprio come avrebbe fatto Marco Pantani se solo ci fossimo impegnati un po’ di più nel salvarlo dal baratro.
Dopo i fatti di Madonna di Campiglio infatti, il rapporto tra Marco e i suoi tifosi non è stato più lo stesso: l’idolo per alcuni è diventato il traditore, mentre quelli che sono rimasti suoi tifosi, sono passati dall’idolatrarlo a compatirlo. E molto probabilmente è stato proprio questo cambiamento a condizionare in maniera irreparabile la sua caduta.

C’è un episodio raccontato da Riccardo Forconi, ex compagno di squadra di Marco dal 1998 al 2002, nel libro “Pantani era un dio” di Marco Pastonesi, che più di qualsiasi altra testimonianza di chi lo ha conosciuto da vicino, ci può aiutare a comprendere i motivi della sua discesa nel baratro:
“Eravamo in macchina con Marco Fincato. Da Padova a Bologna, appuntamento all’aeroporto per volare in Spagna. Siamo in ritardo, voliamo a 180 km/h e al casello ci aspetta una pattuglia dei carabinieri. Quando gli raccontiamo di essere i gregari del Pirata, loro sgranano gli occhi e ci scortano fino all’aereoporto. […] Pantani non passava mai inosservato, era popolarissimo. Neppure Lance Armstrong, anche se ha vinto di più, ha guadagnato di più ed è durato di più, ci è mai riuscito. Ma sarà stata proprio questa popolarità a spingerlo nella più profonda delle depressioni: non potersi più specchiare nella sua gente, senza l’ombra di dubbi, incertezze e equivoci”.

Ancora più struggente è invece la lunga lettera ritrovata il giorno della sua morte, tra le pagine del passaporto; lettera che la manager e amica di Marco, Manuela Ronchi, decise di leggere durante il funerale. Nel passaggio finale di questa lettera, si legge e comprende tutta la delusione del ciclista romagnolo, ormai arresosi alla triste e ingiusta realtà:
«Ma andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni di uomo che si infrangono con le droghe: ma dopo la mia vita di sportivo. E se un po' di umanità farà capire e chiedere cosa ci fa sperare e che con uno sbaglio vero si capisce e si batte, perché si sta dando il cuore. Questo documento è verità, la mia speranza è che un uomo vero o una donna legga e si ponga in difesa di chi, come si deve dire al mondo, regole per sportivi uguali per tutti. E non sono un falso, mi sento ferito e tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare. Ciao Marco».

Negli ultimi mesi di vita Marco si era arreso, aveva smesso di lottare contro quel “sistema” che al Giro del 1999 lo aveva messo con le spalle al muro.
Perchè avrebbero incastrato Pantani? Perchè aveva un conto aperto con la Fiat, che se lo era visto soffiare via come testimonial pubblicitario? Perchè aveva un altro conto aperto, sempre con la Fiat, tramite la RCS, la società proprietaria de La Gazzetta dello Sport e che gestisce tra l’altro, anche le sue corse? Il fatto è noto e risale alla Milano-Torino del 1995, quando una macchina, non rispettando il blocco stradale andò a schiantarsi contromano contro Pantani lanciato in discesa.
Ma lo avrebbero incastrato anche per via delle scommesse clandestine che hanno coinvolto quel Giro d’Italia, come rivelato da Renato Vallanzasca nella sua autobiografia “I fiori del male”: da qui proviene infatti la celebre frase “il pelatino a Milano non ci arriva“.
Se solo l’opinione pubblica non si fosse divisa – un esempio su tutti fu l’allora direttore de La Gazzetta dello Sport Candido Cannavò, che all’indomani dei fatti di Madonna di Campiglio scrisse di sentirsi deluso e tradito da colui che considerava un “amico” – ma lo avesse protetto a spada tratta, oggi Marco sarebbe potuto essere qui con noi, a parlarci di quel ciclismo che ha preteso tantissimo da lui, ma che nel momento del bisogno gli ha voltato le spalle, come il peggiore degli infami.
Sarebbe bastato poco: l’amore della sua gente e di tutti i suoi tifosi (chi a parte Armstrong non tifava per Pantani?), le testimonianze di chi sapeva tutto ma non ha voluto dire niente, e le cose sarebbero andate diversamente. Ed è proprio per questo che oggi più che mai, dobbiamo sentire la necessità di tramandare le sue gesta a chi, per limiti anagrafici non ha potuto viverle in prima persona. Per fare in modo che la fine che sia toccata a Marco, avventuratosi solo nel perfido mondo della droga in cerca di risposte a quelle domande che gli hanno distrutto l’Io interiore, non possa accadere più a nessun altro.

E noi vogliamo immaginarcelo ancora su quella bicicletta, a diciassette anni da quel maledetto San Valentino del 2004, a scalare il Mortirolo o il Galiber di turno lasciandosi dietro tutti i suoi rivali. Anche quelli che di doping ne hanno abusato con consapevolezza, cercando di insabbiare ogni prova fino all’ultimo minuto.
Ciao Marco, ciao Pirata.