Sono un appassionato di calcio, ma soprattutto un cittadino e come tale desidero esprimere liberamente il mio pensiero sulla stucchevole querelle che ci ha accompagnato quotidianamente, dall’inizio della pandemia, sulla ripartenza del calcio.
Il virus ha segnato e sta segnando una stagione inedita della vita civile, mettendo a nudo la fragilità di un sistema socio economico che, partendo dalla globalizzazione generalizzata delle attività umane, punta sulla crescita incondizionata e costante di tutti i fattori chiave che reggono il consorzio sociale.
Anche il calcio non è sfuggito a questa logica contro natura, giacchè, proprio in natura non si ricorda nulla che possa crescere costantemente senza soluzione di continuità, ma Il virus ha interrotto questa logica, bloccandone la spirale costi/ricavi in costante espansione.
Questo evento epocale, per altri versi drammatico, ha spinto molti operatori del settore a chiedere una ripartenza certa e purchessia, per salvare soprattutto gli incassi da sponsor e da diritti televisivi. Ragionevole si dirà! Certo economicamente ragionevole, ma sportivamente disdicevole, dal momento che una stagione interrotta bruscamente con l’alterazione di ogni parametro tecnico, del timing della stagione, dello stato fisico dei calciatori, degli stadi che rimarranno chiusi, non rappresenta in alcun modo la continuazione di ciò che fu interrotto a marzo, non per chi ama il calcio nella sua espressione sportiva.
La stessa voce dei tifosi non si è trasformata in un urlo ad invocare il rinnovato rotolare della palla, forse perché i morti, i malati, la precarietà del lavoro e del futuro per milioni di famiglie ha fatto passare in secondo piano l’importanza che il calcio si auto assegna.

Da uomo di marketing, so molto bene che l’unica qualità che trova consenso è la qualità percepita e poco conta se non corrisponde esattamente con la qualità offerta, allo stesso modo anche la realtà percepita supera abbondantemente ciò che è semplicemente vero e il virus, con la sua insolenza, sta dando pian piano un volto diverso a ciò che si percepisce.
La macchina del calcio si è gonfiata come la rana della favola di Fedro e adesso deve continuare, a prescindere dalla finalità per cui era nata. Le squadre di calcio non esistono più, al loro posto sono sorte società di ogni dimensione che hanno principalmente finalità economiche. Il campionato di calcio è svalutato, se è vero che vincerlo non qualifica più di tanto. Molto più importante è diventato il quarto posto che consente l’accesso alla Champions League e non per un’improbabile ambizione sportiva, ma perché lì, in almeno sei partite garantite, ci sono i soldi.
I calciatori, burattini strapagati, vanno e vengono, non sempre per rinforzare gli organici, ma molto spesso per procurare plusvalenze, per gonfiare bilanci improbabili, lasciando da parte lo sport o quello che ne rimane, alla faccia dei tifosi, talvolta increduli rispetto alle scelte. E intanto il debito collettivo cresce.

Un mercato di burattini sfuggito dalle mani delle stesse società, giacchè questa fiera delle vanità passa direttamente dalle mani dei procuratori, i veri burattinai. Ma se il trasferimento di un calciatore, consente commissioni, più o meno, del dieci per cento, quale procuratore avrebbe veramente interesse a trattenere un campione in una squadra per un lungo periodo? E in questo contesto, chi controlla realmente il cartellino?
Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta di personaggi mitologici che stanno ancora cercando se stessi, immaturi e inaffidabili. Nell’ultimo ventennio, col passaggio dello spettacolo dagli stadi alle televisioni, abbiamo assistito alla metamorfosi del calcio che, come la rana di Fedro, ha cominciato a gonfiarsi, oltre ogni logica, al di la dei più elementari parametri sportivi. Da spettatori troppo ingenui, non eravamo accorti che il pallone ora scorre su un prato di denaro.
Non era mia intenzione fare del disfattismo, ma nel momento in cui il coronavirus ha messo in controluce i moderni stilemi di una società ammalata di protagonismo e del delirio di onnipotenza, evidenziandone la caducità, anche il calcio è apparso nel suo stato reale, sovradimensionato, che ha tradito tanto lo spirito sportivo quanto la passione collettiva che lo ha sempre sostenuto e alla quale era destinato.
L’isterica bagarre scatenatasi sul tema della ripartenza, lascia basiti. Ogni decisione presa è una forzatura evidente che contraddice non solo la logica del buon senso, ma anche il valore stesso di ciò che viene messo in gioco. Si deve giocare a tutti i costi, non per la passione, non per un titolo che è già stato svalutato dalla pubblica opinione e dagli stessi addetti ai lavori che, pur di assegnarlo, sarebbero, tuttavia disposti a giocarselo anche a testa e croce, per salvare improbabili diritti televisivi e sponsorizzazioni.
Avremo molti infortunati, partite con gli stadi vuoti, un non sens, per definizione, la stagione corrente inquinerà pure la prossima, giocatori in scadenza, potrebbero essere fermati entro giugno e scusate se questa non è un’anomalia inaccettabile, per la regolarità del torneo, ma se il virus tornerà a salire, si cambieranno le regole in corsa, contro ogni regola sportiva.
Per cosa si gioca allora? Non per l’orgoglio della maglia, non per i tifosi che non mi sembrano proprio in delirio. Il calcio, così, si sta avvitando su se stesso e quella profetica rana che ci arriva da una morale antica rischia di scoppiare.

So che queste esternazioni possono sembrare eccessive e le porgo con amarezza, consapevole tuttavia che una società, non va mai così lontano che quando non sa dove sta andando.