E' il 9 novembre 1989 ed il mondo sta cambiando per sempre.

Lo sanno i milioni di tedeschi dell'Est che corrono ad abbracciare i fratelli dell'Ovest, attraverso le prime crepe aperte nel tristemente noto Muro di Berlino: "Il Muro" per antonomasia. 

Lo sanno i miliardi di esseri umani collegati da ogni parte d'Europa e del Mondo attraverso le televisioni a tubo catodico, le radio, oppure semplicemente leggendo i giornali e le agenzie del giorno dopo. 

I berlinesi accorrono armati di piccone per demolire una volta per tutte quel detestato Muro, feticcio di una divisione dell'umanità in blocchi contrapposti e nemici, il cui crollo fu universalmente interpretato come il segno che un'epoca durata oltre quarant'anni stava definitivamente finendo.    

Eppure, l’Est europeo trinceratosi dietro la celebre "cortina di ferro" di churchilliana memoria, ha sparso sui suoi vicini occidentali fascino e senso di mistero nel corso di tutto il Novecento: oltre quel Muro, si estendeva un mondo misterioso fatto di spie, di servizi segreti spietati, ma anche di sogni tristemente irrealizzabili, di personaggi e di luoghi per certi aspetti mitici.

Prima che il calcio divenisse un fenomeno globalizzato e globalizzante, prima del mondo unificato delle televisioni satellitari e del web onnipresente, poche informazioni potevano giungere sull’andamento dei campionati di calcio dell’area del Patto di Varsavia, e le poche occasioni di vedere in azione i protagonisti leggendari del calcio comunista erano i match delle Nazionali e delle coppe continentali, fin dai tempi della Grande Ungheria finalista dei Mondiali del 1954. La Nazionale magiara degli "Aranycsapat" (letteralmente "squadra d’oro") allenata da Gusztáv Sebes e composta da top player di levatura assoluta come Ferenc Puskás, Gyula Grosics, Nándor Hidegkuti, Zoltán Czibor, Sándor Kocsis, fu fermata sull’orlo della gloria iridata dai tedeschi, nonostante il doppio vantaggio maturato nei primi otto minuti di gioco. Quella stessa squadra, un anno prima, aveva posto fine all'imbattibilità interna "eterna" deIni "maestri" inglesi, umiliandoli a Wembley con un roboante 6-3.

Nei giorni della rivolta contro il regime comunista (la "primavera ungherese" del 1956) il nerbo di quella grandiosa squadra, costituito dai giocatori dell'Honved, si trovava all’estero in tournèe con la propria squadra di club: alcuni tra i più famosi decisero di non tornare in patria e, dopo pericolose peripezie, vennero raggiunti dai familiari, per accasarsi soprattutto nei club di punta spagnoli Real Madrid e Barcellona. 

Pochi anni più tardi, nel 1960, il Blocco Comunista riusciva ad occupare l’intero podio della prima edizione degli Europei, vinti dall’Unione Sovietica di Yashin, Ponedelnik, Netto e Metreveli, davanti alla Jugoslavia di Galic e alla Cecoslovacchia di Masopust, che nel 1962 divenne il primo calciatore proveniente dall'Europa orientale a vincere il Pallone d’Oro, seguito l'anno successivo proprio dal leggendario portiere russo Lev Yashin (tuttora l'unico portiere nella storia a ricevere il premio, dopo averlo sfiorato per altre tre volte) considerato da molti il più grande estremo difensore di tutti i tempi. Destò scalpore la scelta politica della Spagna che, su "spinta" del caudillo Francisco Franco, decise di non sfidare i sovietici comunisti nel doppio quarto di finale, perdendo entrambi i match per 3-0 a tavolino.

Nel 1966, il Partizan Belgrado di Galic diveniva il primo club del blocco comunista a raggiungere la finale di Coppa dei Campioni, perdendo di misura contro il Real Madrid di Gento allo stadio Heysel.

L'occasione per la rivincita comunista arriverà nel 1969, quando lo Slovan Bratislava supera il Barcellona e si aggiudica la Coppa delle Coppe, anticipando i successi continentali della Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski (nel 1975, trascinata da Blochin, e nel 1986, con Blochin e Belanov) e della Dinamo Tblisi (1981). Ma il grande trionfo continentale arriva solo nel 1986, quando la Steaua Bucarest si afferma come prima squadra dell’Est a vincere una Coppa dei Campioni, laureandosi campione d'Europa dopo aver battuto in finale proprio il Barcellona ai calci di rigore. In caso di vittoria della Coppa dalle Grandi Orecchie, il decadente regime di Ceausescu aveva promesso a tutti i giocatori della Steaua una motocicletta nuova, ma alla fine arrivarono solo delle ARO 4x4, assemblate con pezzi provenienti da altri veicoli, che molti giocatori rivendettero clandestinamente per monetizzare qualcosa.

Protagonista assoluto della finalissima di Siviglia è il portiere rumeno Helmut Duckadam, che riuscì a neutralizzare tutti e quattro i rigori calciati dai giocatori blaugrana Alexanco, Pedraza, Pichi Alonso e Marcos: rientrato in patria da eroe, molti club si fecero avanti per averlo (tra cui il Manchester United), ma le cose presero una piega triste ed inaspettata.  Secondo la versione ufficiale, Duckadam sarebbe stato colto da trombosi alle mani, secondo altre fonti invece vi sarebbe stato un aspro contrasto con il figlio del dittatore, che per vendetta avrebbe ordinato ad alcuni agenti della Securitate (la polizia segreta del regime) di spezzare le mani del portiere. La sua "colpa" sarebbe stata quella di non avergli consegnato una Mercedes regalatagli dal presidente del Real Madrid, come "premio" per aver battuto gli eterni rivali catalani (ad onor del vero, tale versione è stata smentita dallo stesso Duckadam, molti anni dopo).

Nonostante l'indiscutibile qualità di molti suoi elementi, per ragioni politiche, prima ancora che economiche o tecniche, i club e soprattutto i governi dell’Europa dell’Est non erano interessati a sottomettersi alle regole del calciomercato internazionale. Nel 1949, Laszlo Kubala passava clandestinamente il confine tra Ungheria e Austria e, da lì, entrava in Italia, raggiungendo i connazionali Istvan Turbeky e Yeno Vinyei alla Pro Patria: si trattava del primo asso del calcio comunista a essere passato all’Ovest, seguito dopo pochi anni dai già citati fenomeni magiari Sandor Kocsis, Zoltan Czibor e Ferenc Puskas.

Generalmente, i trasferimenti "legittimi" dall’Est all’Ovest riguardavano principalmente giocatori che avevano superato i trent’anni e che ottenevano dai governi il permesso di svernare in squadre minori dei principali campionati europei: si pensi al grande Vujadin Boskov (dal Vojvodina alla Sampdoria nel 1961) e a Milan Galic (dal Partizan allo Standard Liegi nel 1966). A rompere la regola fu Zbigniew "Zibi" Boniek, che aveva solo ventisei anni quando lasciò il Widzew Lodz per passare alla Grande Juventus e vincere tutto. 

Il discorso era diverso per quanto riguardava l’Unione Sovietica, epicentro del potere comunista: nessun giocatore lasciava la vecchia Russia, tranne l'unica eccezione dell’uzbeko Vasili Hatzipanagis, che nel 1975 si era trasferito all’Iraklis Salonicco. La scelta, ovviamente, era politica: figlio di immigrati greci, rientrò nella patria dei genitori subito dopo la caduta del regime fascista dei colonnelli di Atene.

Poi venne la Perestrojka e la cortina, in pratica, cadde: sul finire degli Anni Ottanta, alcuni dei principali calciatori sovietici, in gran parte reduci dalla finale degli Europei in Germania Ovest persa contro l’Olanda, andarono a saggiare il calcio dell’Ovest. Se una vecchia gloria come Oleh Blochin (vincitore del Pallone d’Oro nel 1975) si era trovato un posto nel modesto club austriaco del Vorwarts Steyr, altri si erano accasati nei maggiori campionati del europei, come Dasaev andato al Siviglia, Khidiyatullin al Tolosa, Zavarov e Alejnikov alla Juventus, Rats all’Espanyol, Borodjuk allo Schalke 04, Belanov (vincitore del Pallone d’Oro nel 1986) al Borussia Moenchengladbach, Protasov all’Olympiakos e Mikhailichenko alla Sampdoria scudettata.

Con la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica, si verificherà il definitivo esodo dai paesi del blocco comunista verso il luccicante mondo capitalista, sia per le persone comuni che per i calciatori, i quali ebbero l'opportunità di trovare ricchi contratti da professionisti dopo una vita da dilettanti in patria.

Tutte le società calcistiche dei Paesi comunisti, infatti, essendo espressione del governo e dei suoi enti, trattavano i calciatori alla stregua di normali impiegati e grigi burocrati statali.

Tutti i club conosciuti come "Dinamo" facevano riferimento al Ministero dell’Interno: la Dinamo Mosca era sotto la “tutela” del comandante di turno della Čeka (poi KGB), la Dinamo Berlino, nella Germania dell' Est era di proprietà della Stasi e grazie a qualche “aiuto” riuscirà a vincere ben dieci campionati di fila.

Tutti i club noti come "CSKA" erano sotto il controllo dell’esercito: il CSKA Mosca fin dagli anni Venti era di proprietà dell’Armata Rossa, la cui influenza era comunque meno invasiva di quella della polizia. Le varie "Lokomotiv", come dice chiaramente il nome, erano controllate dalle aziende ferroviarie statali e, ancora oggi, la Lokomotiv Mosca è posseduta dalla Rossijskie železnye dorogi (RŽD). 

Un altro famoso prefisso delle squadre dell'Europa dell'Est è "Spartak", il cui nome deriva dallo schiavo Spartaco, che nell'Antica Roma capeggiò la famosa rivolta degli schiavi avvenuta. La più celebre squadra che porta questo prefisso è lo Spartak Mosca, sostenuta da metà anni Venti dal sindacato alimentare Pischevik. Dal 1934 ha assunto la denominazione di Spartak, diventando la prima e più grande associazione sovietica di sport e cooperazione tra produttori, industria leggera, aviazione civile, educazione, cultura e sanità: insomma, una società cooperativa a servizio degli operai. Fin da subito questa squadra acquisì un grande seguito e nel 1936 ottenne un immenso riconoscimento ufficiale: si decise di disputare una partita di calcio al fine di mostrare a tutti come il football fosse ormai una realtà molto amata in Russia, proprio sul selciato della Piazza Rossa alla presenza di Stalin in persona. Nonostante le obiezioni e i tentativi di sabotaggio da parte della polizia (sostenitrice della Dinamo), la partita si giocò e tutto procedette al meglio, tanto da farla continuare più del previsto perché il Compagno Stalin stava mostrando un  vivissimo interesse.

Con la fine del comunismo e l'apertura totale delle frontiere tra i due mondi, si è scoperto che molti "fenomeni del calcio dell’Est" sognati per quarant’anni dai club occidentali, non erano poi questi grandi campioni: solo Kanchelskis si impose subito come un punto di riferimento nell’attacco del Manchester United, trascinando il club alla conquista di due campionati, una Coppa delle Coppe e altri quattro trofei nazionali.

Il calcio russo cambierà per sempre con l'avvento degli oligarchi e del super-capitalismo selvaggio degli Anni Duemila, con i fiumi di petrol-dollari ed i miliardi del gas, con le vecchie mastodontiche aziende di Stato regalate agli amici degli amici: rispetto alle immagini in bianco e nero di Puskas, alla leggenda del grande Yashin, alle parate miracolose di Duckadam ed ai gol di Blochin, questa è davvero un'altra storia.