"Football is part of I. When I play the world wakes up around me"
Il calcio è una parte di me. Quando gioco, il mondo mi si risveglia intorno.

In questa breve, celebre citazione c'è il senso di quel sentimento totalizzante che univa la superstar del reggae giamaicano Bob Marley a quel gioco chiamato calcio, "football" per gli anglofoni come lui.
Ed il calcio, per Marley, costituiva davvero una parte fondamentale della vita di ogni giorno, oltre che un Piano B a livello professionale. Diceva di se stesso: "Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore... o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività, significa dare libero corso alla propria ispirazione".

Ne aveva buona ragione, perchè pare fosse davvero molto dotato nonostante un fisico non certo statuario, compensato dalla grande tempra atletica, da un agonismo spesso esagerato e da un'ottima tecnica individuale: alto intorno ai 165 centimentri per 65 chilogrammi di peso, ambidestro con predilezione per il sinistro nel calcio di potenza e del destro per il tocco nello stretto. Nelle infinite partitelle quotidiane disputate nel cortile della sua abitazione-quartier generale di Hope Road a Kingston (Giamaica), oppure nei verdi parchi di Londra durante i lunghi soggiorni londinesi, prediligeva giocare da ala, oppure a centrocampo.

"I love music and then football after. Playing football and singing is dangerous because the football gets very violent. I sing about peace, love and all of that stuff, and something might happen y'know. If a man tackle you hard it bring feelings of war".

"Amo la musica e poi il calcio. Giocare a calcio e cantare è pericoloso perché il calcio diventa violento. Io canto pace, amore e tutte queste cose, ma se uno ti fa un tackle duro c'è un sentimento di guerra!". Chiaro, no?
Il tipico outfit anni Settanta, con scarpini Adidas e, nei rigidi inverni europei, i calzettoni sopra i pantaloni della tuta customizzata con la grande M di Marley sul petto, hanno ancora oggi quel buon sapore di leggenda immortale.
Bob è un ragazzo di strada, cresciuto in totale povertà nel tremendo ghetto di Trenchtown, sobborghi di Kingston, insieme alla madre: il padre, un soldato bianco di mezza età rappresentante dei colonizzatori inglesi, è praticamente fuggito via dopo aver messo incinta la giovane ragazza nera autoctona. La classica, triste storia che ha segnato secoli d'imperialismo e sfruttamento del Terzo Mondo.
Il giovane Robert Nesta, suo vero nome, cresce come un meticcio ed è vittima del razzismo "al contrario" dei suoi coetanei che lo apostrofano come "rossiccio" e lo escludono dai giochi: “Mio padre era bianco, mia madre era nera, io sono in mezzo, io sono niente, tutto quello che ho è Dio", dirà di se stesso ricordando quei giorni difficili.
Per non soccombere, il piccolo Marley costruisce la propria corazza da combattente di strada, guadagnandosi l'appellativo di "Tuff Gong", per la capacità di cavarsela in ogni situazione, anche menando le mani: sarà il nome della sua storica etichetta musicale, la Tuff Gong Records, che ancora oggi pubblica i celebri dischi di Bob Marley & The Wailers in ogni angolo del pianeta.
Proprio tra le baracche e le fogne a cielo aperto di Trenchtown, Bob conosce Peter Tosh e Bunny Livingston, con i quali, tra una scazzottata ed una partita a calcio tra i sassi e le lamiere, formerà la band musicale "The Wailers", grazie alla quale quel genere musicale "locale" chiamato Reggae diventerà un fenomeno su scala globale destinato a durare nei decenni.

Ma questa, come abbiamo detto, non è una storia musicale: quella la conoscono tutti. Marley diventerà una superstar della musica ("la prima superstar del Terzo Mondo", diranno i giornali americani ed europei), scriverà e canterà evergreen come No Woman No Cry, Redemption Song, I Shot The Sheriff, Get Up Stanp Up, Jamming, Is This Love, Exodus, One Love e tanti tanti altri. Farà radunare oltre 100'000 persone allo stadio San Siro di Milano, nel giugno del 1980, per l'unica tappa italiana della sua vita, in quello che sarà ricordato come il concerto più importante della storia del reggae e della storia della musica dal vivo in Italia, proprio nel bel mezzo degli Anni di Piombo che avevano escluso il nostro Paese dal circuito della grande musica internazionale.

A proposito di San Siro, come abbiamo già detto, questa non è una storia di musica, ma una storia (vera, verissima) di calcio, di vita e di morte.

Bob, durante la sua scalata al successo, assume come proprio manager e preparatore atletico personale l'amico Alan "Skilly" Cole, probabilmente il miglior calciatore giamaicano della storia. Anche lui è un Rastafariano devoto e poteva contare, oltre ai club nazionali, anche qualche presenza con gli statunitensi Atlanta Chiefs ed un’intera stagione nel Nautico, in Brasile, da professionista. Una stagione anzichè due, perché per il secondo anno il management del club brasiliano aveva chiesto a Cole di tagliare i dreadlocks: "meglio tornare in Giamaica, che rimanere tra i miscredenti".
Con Skilly, Marley si allenerà per anni, fino alla fine dei suoi giorni, correndo sulle spiagge di Bull Bay, palleggiando nel cortile della grande casa di Hope Road, facendo jogging a Central Park nei grandi tour che seguiranno. La routine era chiara ed implacabile: sveglia alle sei, massimo sei e t del mattino, una fumata d’erba ed una colazione con abbondante frutta, poi via a correre ed a palleggiare. Pare che, per ricompensare l’amico del lavoro atletico e dei tanti consigli tecnici, Marley lo aggiunse come coautore nei credits di “War”, uno dei suoi più celebri inni contro la guerra ed il razzismo, e soprattutto organizzò nel 1974 una partita amichevole tra i Cosmos di New York e il Santos (club giamaicano, non la squadra brasiliana di Pelè) con lo scopo di invogliare la squadra americana ad acquistare Alan. Purtroppo la partita si rivelerà una rissa continua e per paura di infortunarsi i migliori giocatori dei Cosmos chiedono di uscire alla fine del primo tempo: Cole, pur essendo considerato dai suoi connazionli come "più forte di Pelè", non viene tesserato e mette praticamente fine ai suoi sogni di sfondare nel calcio a stelle e strisce.
Bob, nel frattempo, aveva fondato anche la propria squadra, composta esclusivamente da Rastafariani: la “House of Dread Football Club”, della quale facevano parte i fratelli Barrett (Carlton e Aston "Familyman", rispettivamente batterista e bassista della sua band), Jill (cuoco personale), Neville Garrick (tecnico luci e responsabile grafico), il vecchio Alvin "Seeco" Patterson (percussionista, quindici anni più anziano degli altri). 
Dal 1976 in poi, con il grande successo degli album Rastaman Vibration (disco d'oro negli Stati Uniti) e Exodus (cinquantasei settimane consecutive in classifica in Inghilterra) e le tournée infinite, le possibilità di organizzare partite in giro per il pianeta si moltiplicano: la House of Dread FC sfida addirittura una squadra professionistica europea, i francesi del Nantes campione nazionale in carica. Marley aveva preso contatti direttamente con l’allenatore Jean Vincent e lo aveva convinto a lasciargli alcuni dei suoi giocatori per una partitella 5 contro 5 dopo l'allenamento. Davvero un'altra epoca! Immaginate cosa sarebbe successo oggi ad una simile richiesta.
La partita finisce "solo" 4-3 per il Nantes (che schierava Loïc Amisse, Patrice Rio, Bruno Baronchelli, Gilles Rampillon, Henri Michel), Bob sigla una doppietta ed Henri Michel (titolare della nazionale francese) dirà in seguito: "Come giocatore non era male, davvero. E poi metteva sempre la gamba, pure se stavamo giocando in amicizia". Il risultato è comunque falsato: dopo essere andati sotto nel punteggio, i Rasta chiedono di mischiare le squadre "alla vecchia maniera", per non soccombere in maniera esagerata.

A Londra, la squadra di Marley si scontrava spesso con la New Musical Express, una squadra amatoriale che raccoglieva addetti ai lavori dell’industria musicale, tra cui giornalisti, dj's radiofonici e artisti vari.
Si dice che nel 1976, in occasione del suo primo concerto ad Amsterdam, Bob abbia chiesto di incontrare Johan Crujiff, ma quest'ultimo non abbia acconsentito, lasciando il cantante con l'amaro in bocca ed un certo senso di fastidio.
Il tour mondiale a supporto dell'album Kaya nel 1978 era stato studiato per poter seguire la Coppa del Mondo che si stava disputando in Argentina, con tanto di televisori nel pullman ed orari dei concerti e dei soundcheck calcolati per non perdersi le partite del Brasile (squadra amata dal tutti i giamaicani come una sorta di seconda Nazionale di casa) e dei padroni di casa futuri campioni.
Nel marzo del 1980, per fare un po' di promozione, Bob Marley assieme ad altri musicisti vola a Rio de Janeiro per un soggiorno breve, che non gli impedisce però di organizzare una partita di calcio in cui, tra i convocati, figurano Chico Buarque, Toquinho e soprattutto il pluri-campione del mondo Paulo Cesar “Caju” che si professava suo grande ammiratore.
Proprio quest'ultimo consegna a Marley un intero kit del Santos, ma riguardo al match l’ex attaccante della Seleção dirà in modo schietto: "Marley era caotico in campo e molto grossolano nel tocco palla". 

Purtroppo, come dicevamo all'inizio, questa grande storia di vita ed amore è anche una storia tragica.
Il 10 maggio 1977, per l'Exodus Tour, è previsto il concerto di Bob Marley and The Wailers al Pavillon Baltard di Parigi: Marley, come al solito, aveva incaricato l’ufficio stampa della casa discografica di organizzare una partitella contro Polymusclés-63, una specie di nazionale cantanti con elementi che provenivano da tutte le arti  (ne hanno fatto parte, tra gli altri, Jean-Paul Belmondo e Claude Brasseur), la quale giocava per raccogliere fondi a favore dei disabili. 
Viene attrezzato un campo tra l’Hilton Hotel, dove alloggiavano gli Wailers, e la Senna: gli artisti-calciatori francesi si presentano in tenuta verde, i giamaicani con i cappelloni di lana e gli occhi rossi, ma la partita non ha storia. Sul punteggio di 6-1 a favore della squadra di Marley, un’entrataccia a piedi uniti stende Bob: la superstar del Reggae, che solitamente si rialzava subito senza fare storie (come si dice oggi: è uno che le dà e le prende), stavolta resta a terra. Si toglie la scarpa destra ed il calzino è insanguinato.
Bob minimizza e si fa medicare in hotel, con disinfettante e garza sterile, ma l'unghia cade e la ferita nel corso delle settimane stenta a guarire: gli esami strumentali ravvisano la presenza di un melanoma, tumore maligno della pelle. Alcuni medici  gli consigliano vivamente di amputare l’alluce per cercare di contenere la malattia, altri suggeriscono di asportare solo il letto dell’unghia: Bob sceglie la seconda opzione per motivi religiosi, per paura di perdere "stabilità" nelle danze sul palcoscenico, oltre che per la consapevolezza di non poter più giocare a pallone. La seconda parte dell'Exodus Tour, che doveva toccare gli Stati Uniti, viene cancellata per consentire al Bob di sottoporsi ai trattamenti scelti. Nonostante l'intervento chirurgico ed il parere dei medici, purtroppo la malattia viene trascurata per due anni e mezzo: il tumore progredisce implacabile all'insaputa di Bob e dei suoi amici e colleghi, i quali continuano a registrare dischi, fare concerti e giocare a calcio in ogni possibile angolo del mondo, dall'Italia all'Australia, passando per lo Zimbabwe ed il Giappone.
Il conto da pagare, purtroppo, arriva ed è salatissimo: nel settembre 1980, dopo un trionfale tour "sold out" negli stadi d'Europa (tra cui, come accennato sopra, San Siro ed il Comunale di Torino), Marley è negli Stati Uniti con gli Wailers per concludere la promozione di Uprising.
La mattina dopo il trionfale concerto al Madison Squadre Garden di New York insieme ai Commodores di Lionel Richie, Bob, Skilly ed i ragazzi della band si recano a Central Park per il solito allenamento mattutino, ma stavolta qualcosa va storto: Bob collassa, il suo corpo è rigido, il colorito grigio. Skilly lo aiuta a riprendere i sensi e, con grande fatica, lo accompagna in hotel.
La diagnosi dei medici è di quelle senza scampo: il cancro, partito dal piede, ha invaso tutto il corpo, polmoni, fegato fino ad intaccare gravemente il cervello, tanto da considerare "miracoloso" il fatto che Bob fosse ancora in grado di tenere concerti ed anche soltanto di camminare e di parlare. Gli restano poche settimane di vita: Marley, distrutto, decide di non dire nulla agli altri e di tenere l'ultimo concerto della sua straordinaria vita a Pittsburgh, il 23 settembre del 1980. 
Poi il tour viene definitivamente interrotto con le classiche giustificazioni generiche ed il massimo riserbo: "Bob è esausto, è stressato, deve riposare". Tutte le cliniche che lo avevano visitato negli Stai Uniti non gli davano più di dieci settimane di vita, Bob allora chiede al capo-band Aston Barrett di terminare alcune vecchie registrazioni e chiedere a tutti i ragazzi del suo entourage di tornare in Giamaica e tapparsi la bocca. La notizia, purtroppo, inizia a filtrare sui giornali di tutto il mondo: Bob Marley è malato, Bob Marley sta per morire.

Come ultima speranza, Bob viene condotto in Germania dal dottor Joseph Issels, il quale accettava solo casi definiti incurabili dalla medicina ufficiale per sperimentare delle cure alternative. Si vede qualche risultato, Marley perde i dreadlock ed oltre 30 chilogrammi di peso, ma guadagna alcuni mesi di vita fino a festeggiare un insperato trentaseiesimo compleanno proprio nella clinica tedesca.
Purtroppo nella primavera del 1981, il "Tuff Gong" giamaicano è costretto ad arrendersi all'unico avversario che non è stato in grado di dribblare, né di colpire con la musica: il volo di ritorno verso casa deve fare scalo d'emergenza a Miami, dove Bob Marley muore la mattina dell'11 maggio 1981.

Questa storia riguarda uno dei più grandi musicisti mai vissuti, ma non è una storia di musica, è una storia di amore per il calcio, amore che (in questo caso possiamo dirlo davvero) vale come la vita.
"Football is a whole skill to itself. A whole world. A whole universe to itself. I love it because you have to be skilful to play it! Freedom! Football is freedom!".