Sono passati pochi giorni dall’esonero di Mourinho. Con l’addio del tecnico portoghese, i suoi 2 anni e mezzo in giallorosso completano la transizione che li accatasta definitivamente nell’archivio storico.
Mentre l’attualità viene polarizzata dal rientro a Trigoria di Capitan Futuro, stavolta nelle vesti di allenatore.
Pochi giorni appunto, il tempo di metabolizzare l’ennesimo colpo di teatro dei signori Friedkin e provare a restituire un’analisi obiettiva sul momento della Roma, depurandola da emotività e reazioni d’istinto.

Oggettivamente, l’impressione che il tempo di Mourinho a Roma fosse concluso si era avuta già dopo Budapest. E gli ultimi tribolati mesi non avevano mai contribuito a smentirla.
La discutibile qualità estetica del gioco e un rendimento in campionato sempre sul filo della decenza sono stati quasi una costante nell’avventura a Roma del tecnico portoghese, ma gli eccellenti cammini europei (con tanto di trionfo in Conference) avevano difeso la prolungata “luna di miele” tra Josè e il grosso del pubblico giallorosso, facendo rimbalzare ogni critica addosso alla concretezza (e unicità storica) di quei risultati.

Il “dopo Milano”, con uno spareggio europeo ancora lontano e un mortificante 9° posto in campionato, ai Friedkin deve essere sembrato l’atteso allineamento di pianeti perfetto per silurare l’allenatore portoghese.

La mia difficoltà nell’analizzare questa mossa a sorpresa della proprietà americana sta nel collocare questo esonero in un quadro generale. Dove tutto sembra fatalmente accettabile nella consequenzialità degli eventi appena elencati, ma allo stesso tempo rende irrimediabilmente poco decifrabile la filosofia che sottende tutto il progetto sportivo.
Ad esempio, mi chiedo, che senso ha avuto ingaggiare Mourinho? Farlo subito dopo aver assunto un d.g. come Pinto (che parla di calcio “sostenibile”) e farlo poco prima di firmare un accordo con l’Uefa che di fatto ha ingessato il mercato e congelato qualsiasi strategia di investimento.
E ancora, cosa hanno ottenuto i Friedkin nel consegnare la responsabilità comunicativa della Roma a un inarrivabile personaggio mediatico come il portoghese?
Cosa aspettarsi se non che questa assoluta rappresentanza pubblica della As Roma venisse utilizzata da Mourinho come strumento per difendere ripetutamente la validità del suo operato, rimarcare lacune della proprietà e coltivare efficacemente la sua simbiosi col tifo giallorosso?
Qual era il senso di contrapporre due filosofie tecnicamente incompatibili come quelle di Pinto e Mourinho, consentendo che la popolarità del secondo minacciasse continuamente (e a dispetto delle gerarchie societarie) la credibilità del primo per poi disfarsi nel giro di pochi giorni di tutte e due le figure in questione?
Cosa resta adesso, oltre alle macerie di una rosa con giocatori svalutati, calciatori di passaggio (prestiti o scadenze) e pochi elementi 'monetizzabili'? Con la prospettiva di un impegnativa rifondazione tecnica necessaria nel futuro più prossimo, da avviare con un allenatore “in prova” fino a giugno, senza disponibilità finanziarie e attualmente, con un direttore generale dimissionario.

Tante di queste (e altre) domande resteranno probabilmente senza risposta, soprattutto se l’astensione integrale resterà l’unica strategia comunicativa dei proprietari della Roma. E pure la scelta di Daniele De Rossi in panchina suggerisce il malizioso sospetto che si sia privilegiata la volontà di interporre nuovamente tra loro e la tifoseria un personaggio talmente amato da costituire un cuscinetto ideale.

Restano 18 partite da giocare, un preliminare col Feyenoord e un volenteroso Capitano in panchina che rischia tanto.
Ma c’è anche tanto da poter ancora conquistare e la zona Champions a una manciata di punti, è lì a ricordarlo.
Contro l’Hellas serviranno subito i 3 punti, ma pure un tifo unito e uno stadio pieno.
Proprio come quello che, insieme al nostro primo trofeo internazionale, ci ha lasciato in eredità Josè.